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20 anni in accademia: Vi racconto il mio lavoro

di Luigina Sheffield
PhD Graduation

Sono trascorse molte settimane dal mio ultimo post. In questo periodo ho spesso voluto scrivere su vari argomenti, ma non ci sono mai riuscita. La ragione principale sono i numerosi impegni di lavoro che mi hanno tenuta sotto pressione per diversi mesi. Una parte di questo post l’ho scritta dal mio ufficio una domenica pomeriggio, un’altra da casa mia a Sheffield una mattina presto mentre aspettavo di collegarmi via Skype con dei colleghi lontani. La terza l’ho scritta in un’anonima stanza d’albergo, vicino ad un anonimo aeroporto come pausa tra finire una presentazione che dovevo fare all’ indomani e rispondere ad email ignorate troppo a lungo. Finalmente, completo il post in Italia durante qualche giorno passato in compagnia di mia mamma e lavorando remotamente. Le circostanze che hanno dato origine al post sono significative, perché rappresentano bene tipiche e frequenti situazioni della mia vita professionale.

Si parla spesso di ricercatori e di accademia, dei cosiddetti (orribilmente etichettati) “cervelli in fuga”, e degli annosi problemi dell’Università italiana. Mi ha colpita l’episodio della ministra Giannini che ha postato su FB le sue congratulazioni per tutti gli italiani vincitori di finanziamenti ERC (una delle borse di finanziamento Europeo più ambite e difficili da ottenere), e la risposta datale da una prof italiana in Olanda (Francesca D’Alessandro) che l’ha accusata di essersi appropriata di successi che sì sono stati conquistati da persone italiane, ma grazie al supporto delle università in altri paesi dove lavorano. Ne sono seguiti vari titoloni sui giornali online con varie storie aggiuntive sulle brillanti menti italiane costrette a scappare all’estero, storie di nepotismo e bullismo accademico, e persino uno speciale (su La Repubblica) dedicato ai ricercatori ERC italiani sia in Italia che all’estero.

PhD Graduation

La mia PhD Graduation, Settembre 2004

Da accademica e ricercatrice che fa questo lavoro da vent’anni, mi sento sempre un po’ confusa quando il mio ambiente lavorativo viene discusso dai media italiani. Prima di tutto mi sembra che vengano fatte quasi sempre delle generalizzazioni veramente estreme (ad esempio la storia di un “cervello in fuga” poi rapidamente diventato capo galattico da qualche parte “all’estero”), mentre un interesse vero per la scienza e la ricerca da parte dei media (e, probabilmente, del pubblico) secondo me non c’è. In UK, ad esempio, è molto frequente vedere programmi televisivi in prima serata dedicati a temi scientifici (con accademici diventati divulgatori molto popolari, come il fisico Brian Cox, lo studioso di salute pubblica Hans Rosling, e le storiche Mary Beard e Amanda Foreman). In Italia se togliamo il benemerito “Superquark” non rimane poi molto.

Ma, a parte i problemi dei giovani ricercatori che si avviano alla carriera accademica, cosa si sa poi della nostra vita e del nostro lavoro? Forse a un certo punto diventiamo tutti “baroni” privilegiati e senza più problemi, pronti a perpetuare il ciclo dei giovani ricercatori sfruttati? La realtà è abbastanza diversa.

La mia esperienza professionale si è svolta principalmente in tre paesi (l’Italia, l’Irlanda e l’UK), con esperienze in molte altre nazioni europee ed extraeuropee con cui collaboro. L’ etichetta del “cervello in fuga”  non me la sono mai riconosciuta: non sono fuggita da nulla, né da scandali nepotistici, né da baronie e bullismi vari (che comunque accadono anche in paesi che non sono l’Italia. Gli sfruttatori non hanno nazionalità!). Semplicemente, avevo l’obiettivo iniziale di costruire una carriera accademica, volevo viaggiare, cercavo opportunità di ricerca in tutta Europa e in USA, me ne fu offerta una in Irlanda e così ho iniziato a lavorare in un laboratorio irlandese dove poi ho anche proseguito i miei studi e ottenuto il PhD. In quel laboratorio c’erano colleghi irlandesi, ma anche svedesi, danesi, americani, indiani, brasiliani e più chi ha più ne metta. Questa è una realtà abbastanza normale in un gruppo di ricerca di buon livello. Il mondo accademico è un mondo necessariamente internazionale e molto competitivo. Per lavorare ad alti livelli è praticamente obbligatorio trascorrere almeno un periodo in un paese diverso dal proprio, ed è molto comune che un ricercatore o ricercatrice cerchino lavoro su una scala internazionale, anche se non obbligati alla “ fuga” da altri fattori. Conosco messicani che lavorano in Danimarca, danesi che lavorano negli USA, brasiliani che hanno studiato in Irlanda e ora lavorano in Austria, inglesi che hanno lavorato in Francia e in India, tanto per fare pochi esempi.

Riunione

Tipica riunione di programma: gente più di 30 nazionalità stipata in una sala riunioni senza finestre

Cosa succede dopo le fasi iniziali, quando si è ormai parte del mondo accademico, soprattutto se donna e se in un paese che non è quello della tua nascita? Prendo questo post come l’occasione per una riflessione personale (basata sulla mia esperienza, ovviamente) su alcuni aspetti per me molto importanti.

  • Lavoriamo praticamente sempre: uno dei motivi per cui si fa ricerca è la curiosità – l’entusiasmo di esplorare un campo che ci interessa. Ci sono molte grandi soddisfazioni quando vediamo finalmente un risultato, ma per arrivare a quel risultato il percorso non e facile ed è fatto di lavoro costante e spesso frustrante. Lo stile di vita dei ricercatori accademici è per natura “all-consuming”. Alla ricerca aggiungete le responsabilità di insegnamento e di amministrazione. Chi fa questo lavoro lo fa per il 100% del tempo, anche se godiamo di flessibilità e libertà che molti altri lavori non danno. Se necessario, lavoriamo i weekend, la notte, durante le vacanze. Durante l’anno, mi capiteranno 3-4 finesettimana in tutto dove non lavoro affatto. Normalmente preferisco prendermi il sabato libero e lavorare almeno un po’ di domenica. Se c’è una scadenza all’orizzonte, il finesettimana di riposo -chiaramente – non esiste. Se sono in vacanza, c’è l’eterno dilemma se controllare l’email di lavoro almeno una volta ogni due giorni o se affrontare le centinaia di richieste tutte insieme una volta tornati in ufficio e sentirsi soffocare dal compito. Questo dilemma non ha soluzione! È molto facile esagerare con i ritmi e, nei casi peggiori, c’è chi soffre di “burn-out”, esaurimento da troppo lavoro. Visto che quello che si produce e’ quasi sempre intangibile, il rischio e’ cercare di fare troppe cose per rendere il risultato più visibile e forte. Nonostante questi rischi li conosciamo tutti, pochi di noi sono capaci di gestire meglio il carico di lavoro. È molto frequente per chi si trasferisce in un altro paese, finire a lavorare solamente e non costruire nuove amicizie e attività fuori dal lavoro. Può essere un’esperienza molto solitaria e sfiancante.
  • Competizione elevatissima: Io ho ottenuto il mio primo lavoro a tempo indeterminato dopo 13 anni di precariato, e so bene che non tutti hanno avuto la mia fortuna. Avere un lavoro a tempo indeterminato ha comunque richiesto due anni di ricerche e colloqui, ed un altro trasloco internazionale, lasciare amici, vendere casa e preoccuparsi per il futuro del mio compagno (visto che anche lui ha dovuto cercare un altro lavoro ed emigrare con me). La competizione è feroce (e in campi umanistici dove i finanziamenti a disposizione per personale e progetti sono storicamente più bassi lo è ancora di più). Quando finalmente si ottiene una posizione, la competizione prosegue nel riuscire a pubblicare (le riviste e conferenze migliori accettano di solito una piccola fetta di contributi eccellenti) e ottenere finanziamenti (l’araba fenice del mondo accademico!).  Questa competizione non è solo dovuta a un desiderio di successo personale: spesso abbiamo interi gruppi di persone che dipendono da noi (dottorandi, ricercatori junior, etc.) e dalla nostra abilità nel produrre risultati. Le università sempre più spesso pongono degli obiettivi di “produttività” molto ambiziosi e spesso impossibili da raggiungere (solo un paio di anni fa uno stimato professore all’Imperial College di Londra, Stefan Grimm, si è tolto la vita perché depresso, tra l’altro, a causa della pressione professionale). È una responsabilità molto pesante, ed i successi sono sempre una proporzione molto piccola rispetto ai tentativi. L’altra faccia della medaglia è, appunto, avere a che fare con molti e costanti rifiuti – una cosa che (nonostante ci si faccia l’abitudine) non è mai particolarmente piacevole o facile da digerire. Alcuni colleghi hanno varie e proprie strategie per proteggersi dal colpo che un rifiuto particolarmente duro può causare (immaginate ricevere commenti molto duri su qualcosa che avete impiegato mesi per realizzare, con cura e impegno, e da cui può dipendere il futuro delle persone che lavorano con voi).
  • “Impostor Syndrome”: in un campo professionale che si ciba di idee originali e’ molto facile sentirsi degli imbroglioni che sono meno intelligenti/abili/bravi degli altri. Questa percezione di sé “al ribasso” che vede una persona sminuire i propri successi e le proprie conquiste è chiamata “sindrome dell’impostore” ed è molto comune. È un problema che ci riguarda un po’ tutti, ma che è particolarmente delicato per i giovani ricercatori o studenti che possono sentirsi scoraggiati o inadeguati a proseguire con il loro lavoro. Come loro manager, devo essere sempre attenta a dare loro incoraggiamento e non solo suggerimenti per migliorare quello che fanno. Il problema dell’ impostor syndrome sembra essere ancora più comune per le donne, che culturalmente (purtroppo) sono spesso spinte a inseguire ideali di perfezione, e che tendono a sottovalutare i propri successi. Molte università (inclusa la mia) hanno stabilito programmi di “mentoring” per le accademiche proprio nel tentativo di evitare che si sminuiscano e limitino da sole. Molte università offrono anche servizi di counselling, visto che l’aumento di problemi di salute mentale in accademia è decisamente preoccupante.
  • Conciliare lavoro e vita privata: per i motivi di cui ho scritto sopra, spesso si creano tensioni nel riuscire a bilanciare il lavoro con la vita privata, soprattutto se si ha una famiglia. Molte mie colleghe hanno compagni o compagne che sono nel campo accademico, e che quindi affrontano problemi simili. Per fortuna, la flessibilità del lavoro da questo punto di vista aiuta molto. Se però si hanno partner con carriere in altri campi può diventare un po’ più difficile. Ad esempio, per definizione il campo è internazionale e si viaggia abbastanza, il che pone difficoltà per chi ha figli, sia insieme a un partner che da single. Il mio ambito di ricerca da questo punto di vista è molto generoso: ad alcune conferenze a cui ho recentemente partecipato c’era la possibilità di portare i figli e di usufruire di childcare in condivisione. Un collega ha portato con sé sua figlia di sette anni e lei è venuta insieme a lui a quasi tutte le sessioni della conferenza, leggendo libri, o giocando tranquillamente con gli altri due bambini che erano lì e il collega che faceva loro compagnia. Vedere che la mia comunità di colleghi è disponibile a supportare la vita familiare dei membri è stata una cosa che mi ha reso molto felice. Per fortuna nella mia comunità ho avuto sempre esperienze molto positive riguardo la parità di genere e il rispetto delle diversità. Non so se sono stata solo fortunata, ma riconosco che grazie a questo non ho dovuto combattere contro difficoltà che esistono per le donne in vari ambienti professionali e che si aggiungono a quelle di fare un lavoro già da sé molto competitivo.
  • Cittadini del mondo: vista la natura del nostro lavoro, non è sufficiente adattarsi al paese dove si vive e si lavora (che, appunto, spesso non è quello dove si è nati), ma si deve essere pronti ad “immergersi” ovunque, sia per partecipare ad eventi e collaborare con colleghi da altri paesi e culture, che per lavorare con studenti di ogni nazionalità nella propria università. L’attenzione e il rispetto per le diversità culturali, religiose, etniche e personali sono aspetti cruciali della nostra formazione professionale e della nostra capacità di far bene questo lavoro. Il privilegio che abbiamo dell’essere a contatto costante con tante culture e persone diverse, richiede attenzione nel rispettare ed accogliere tutte queste diversità ed i vari problemi di integrazione e comunicazione che possono comportare.
Viaggio San Francisco

Una delle cose che mi regala il mio lavoro: viaggiare! San Francisco, Febbraio 2016

Dopo tanti anni e tanto lavoro sono ancora molto felice della mia scelta, ma è anche vero che questo può essere un campo difficile e sfiancante. So benissimo che, nonostante le difficoltà che comunque si trovano in ogni ambito lavorativo, il mio è un lavoro privilegiato: ho la possibilità di seguire i miei interessi, di trasformali in un tema professionale, e di esplorare e conoscere tanti luoghi del mondo e i loro abitanti. La soddisfazione maggiore è comunque vedere tanti studenti e collaboratori divenire esperti nel loro campo, imparare da loro e festeggiarli quando raggiungono i propri successi. Solo questo mi incoraggia a proseguire per i prossimi vent’anni.

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