Suppongo che troverete questo un po’ più lungo del normale, quindi prendetela come una storia da leggere sotto l’ombrellone, sulla terrazza della casa in montagna o nel salotto di città.
Nell’inverno 2013-2014, prima di partire per il Giappone, una delle cose che più mi preoccupava era il lato umano di tutto il progetto che stavo ideando: dopo ventisette anni a Milano, in Italia, ero circondata da una rete di amicizie che si spandeva lungo tutto lo stivale, e sia quelle lontane che quelle dietro l’angolo erano a loro modo importanti. Quelle persone mi avevano sempre sostenuto in tutto e avevano reso luminosi anche i giorni più grigi. Come cavolo la ricostruivo una cosa simile, da zero, in un altro paese?
Avevo tre conoscenze in Giappone, tutte di Tokyo, ma quando arrivò il momento di cercare la scuola ed una sistemazione avevo già scartato la capitale: i corsi di lingua e le case (dalla share house da 19 persone, agli appartamenti del genere se dormi rannicchiato ci stai) costavano tutte troppo per il mio budget. Un paio di compagne universitarie, due anni prima, avevano fatto una gita a Yokohama e al loro ritorno me ne avevano parlato bene. Feciqualche ricerca e optai per quella città. Non era Tokyo, ma in trenta minuti di treno ci si arrivava. Pensai che fosse un buon compromesso tra la mia capacità monetaria e la mia speranza di poter incontrare quelle tre persone che già conoscevo, che mi sarebbero servite anche per ampliare il giro di amicizie. Speravo proprio che loro potessero rappresentare un punto di partenza.
La realtà si rivelò un po’ diversa.
Quelle persone, alla fine, le avrò viste due volte in tutto. I primi tre mesi e mezzo furono difficilissimi.
Avevo progettato un anno di studio e così avrei fatto, ma non sarei rimasta oltre, mi dicevo. Non mi ero mai considerata una persona particolarmente sociale o appiccicosa, ma nemmeno asociale: semplicemente normale; invece all’improvviso avrei pagato pur di avere qualcuno con me, da chiamare per fare un giro, per un abbraccio, o anche solo per stringersi la mano, qualsiasi cosa purché fosse un contatto fisico. Ero arrivata al punto che le poche volte in cui prendevo il treno e qualche povero giapponese stanco si addormentava scivolando sulla mia spalla, sentivo il cuore battermi forte per qualche secondo, come quando da adolescenti ci si prende per mano per la prima volta con la cotta del momento, e non importava che l’addormentato di fianco a me fosse uomo o donna, vecchio o giovane: era il semplice contatto fisico tra spalle, il calore della vicinanza di un altro essere umano a darmi quell’emozione. A parte questi rari momenti, sentivo come se intorno a me si fosse formata una zona di terra bruciata dal raggio di circa 50 centimetri, un area alla quale nessuno si avvicinava, lasciandomi fisicamente e psicologicamente isolata.
Non potevo contare sulle mie coinquiline, avevamo tutte orari diversi e non incontravo nessuno la mattina (uscivano tutte prima di me) nè alla sera (tornavano tutte tardi dal lavoro), mentre nei weekend uscivo sempre per girare la città e cercare di conoscerla. Nè avevo qualche speranza con i compagni di classe: la scuola che ho frequentato contava un centinaio di asiatici (tra cinesi, vietnamiti, cingalesi, tailandesi, pakistani, taiwanesi, nepalesi) e una occidentale: me! Ero una specie di animale raro e molti non mi parlavano perché intimoriti. La vita dello studente straniero in Giappone poi è sempre impegnativa, la maggior parte di loro era nel paese già da un anno, quindi lavoravano tutti part-time e dopo le lezioni (o prima, di notte) erano occupati.
Insomma, senza accorgermene diventai una persona che soffriva di solitudine. Ogni tanto, dal nulla, mi mettevo a piangere in camera mia pensando a quanto avrei voluto pranzare con il mio migliore amico, fare una chiamata Skype con la mia pazza compare di Sezze o fare una notte di film con la mia ex compagna di università. E invece, non solo tutto questo non era possibile, ma non avevo assolutamente nessuno che potesse anche solo in parte fungere da sostituto.
Per mia fortuna in Luglio cambiò qualcosa.
Mi ero messa a cercare lavoro perché ormai erano quasi quattro mesi che mi ero stabilita in Giappone ed era arrivato il momento di trovare il modo di mantenersi. L’idea era di insegnare italiano, avendo un master e una certificazione apposita, ma avevo bisogno di trovare una cosa immediata, che non richiedesse lunghi colloqui e ricerche di scuole. E il modo più facile per un italiano in Giappone, è lavorare in un locale italiano. La mia insegnante responsabile dell’epoca decise di darmi una mano, presentandomi suo cugino che aveva un locale di cucina italiana in un posto che dalle mie parti si definisce Casadidio. Esattamente non so perché non chiese al suddetto cugino se cercava personale PRIMA di andarci, dato che non era così e noi andammo fino a lì per nulla. Ma lui, gentile, promise di contattare un conoscente che gestiva un grande ristorante italiano: cercava sempre personale, avrei avuto più fortuna.
Disse lui.
Raggiunsi il Grande Ristorante Italiano in un giorno di metà Luglio quando ormai la stagione delle piogge era finita e il tipico caldo giapponese, quello che ti toglie il fiato e devi sviluppare le branchie per sopravvivere, la faceva da padrone. Il Grande Ristorante Italiano si trovava a Casadidio2 e dopo aver chiesto indicazioni all’omino alla stazione vagai sotto il sole impietoso per un’ora prima di accettare la bollente verità: avevo sbagliato strada. Una gentile signora mi indicò il modo per tornare alla stazione e mi ci accompagnò perchè anche lei stava andando lì, e chiacchierando durante il percorso venne fuori che conosceva bene il Grande Ristorante Italiano, così mi ci portò.
Mi si doveva raccogliere con la cannuccia dopo il caldo e dopo tutte le salite che avevo inutilmente affrontato (il Grande Ristorante Italiano era a trenta metri dalla stazione, ma dalla parte opposta rispetto alle indicazioni dell’inutile omino della stazione), ma dopo il danno venne anche la beffa: Guarda, te lo dico subito, noi non stiamo cercando personale. Posso solo pensare che il gestore abbia accettato di farmi il colloquio come favore al cugino, perché erano amici e lo sentiva come un obbligo. Come favore a me, invece, avrebbe potuto dire subito che tanto era inutile e risparmiarmi così l’insolazione sulle salite di Casadidio2. Ma la logica, per quanto ferrea, perde sempre contro il senso dell’obbligo verso una persona in Giappone.
Tornata a casa, sull’onda della rabbia, presi una decisione: controllai su internet l’orario di apertura del piccolissimo locale della via di fianco, compilai un nuovo curriculum e alle 18 uscii di casa per andare a consegnarlo.
Un campanellino appeso ai cardini annunciò la mia entrata. E’ permesso? chiesi facendo un passo dentro al locale: non c’erano luci accese ed era ancora tutto nella penombra. C’era un uomo col pizzetto che scriveva su una lavagna e un’altro con i capelli un po’ più lunghi del normale che allungò il collo da dietro una fila di bottiglie sul bancone. Non c’era nessun cartello che dicesse che cercavano personale e in Giappone, se non c’è il cartello, è inutile candidarsi, ma al tempo non lo sapevo. Specificai solo che non sapevo se in quel momento avevano bisogno di qualcuno, e che ad ogni modo gli avrei lasciato volentieri il curriculum. L’uomo col pizzetto mi fissava ed io non capivo se era stranito, stupito o cos’altro. Mi fece un paio di domande e poi mi lasciò andare. L’uomo in cucina non disse nulla, continuando a guardarmi da dietro le bottiglie.
Se lo chiedete a quei due, dal loro punto di vista, il nostro primo incontro fu un evento stranissimo e divertente. Ancora oggi se lo ri-raccontano tra di loro, ogni tanto. Da parte mia ero solo stanca e disperata ma, ad ogni modo, quello fu il mio primo incontro col Capo (l’uomo con il pizzetto) e con Cidanci (quello dietro le bottiglie): i due uomini che quell’anno mi salvarono ripetutamente dalla solitudine e mi regalarono certe risate che non credevo sarei più stata in grado di fare.
Infatti è andata così, cominciai a lavorare lì 3 giorni dopo e da quel momento cominciai a sentirmi meno sola, grazie al Capo, grazie al mio collega e ai clienti che hanno creato una rete di persone che mi vogliono bene, che si interessano a quello che faccio e partecipano alla mia vita qui.
Come si può descrivere il nostro locale?
E’ come venire catapultati in Bar Sport, ma senza Luisona: ogni cliente abituale è una specie di macchietta e molti hanno anche un soprannome, molti dei quali, ahimè, se non sapete il giapponese non significano nulla.
C’è Noinoi, un semplice impiegato in fabbrica che ha scelto il posto di lavoro in base alla vicinanza al locale. Anche se ormai va per i 40, vive ancora con i genitori e non ha uno straccio di donna, ma sembra soddisfatto così. Spende i suoi soldi nelle cose che gli piacciono (perlopiù parti di computer e giochi per i nipoti), nei dolci che prepara il Capo e in caffè macchiato doppio, che è sempre l’ultima cosa che beve il venerdì sera prima di pagare, salutarci e tornare a casa.
Oppure c’è la signorina Biscotto. Anche lei, nessun marito, e ormai è sui 50. E’ pure rimasta un po’ di anni senza lavorare e ha ripreso solo ultimamente trovando posto facilmente. Ma fa una vita super attiva tra mostre, viaggi all’estero, spettacoli ed esperienze particolarissime in giro per il Giappone. Da noi prende sempre una birra, mangia qualcosa e poi un bicchiere di Cava (vino frizzante spagnolo). SEMPRE.
Poi c’è la famiglia di Fiorellino, che ha la mamma giapponese e il papà neozelandese e che ogni volta mi racconta dove è stata, cosa ha fatto e cosa ha visto all’asilo. Per loro è sempre cappuccino, latte freddo e succo d’uva. O la famiglia Tartaruga, mamma, papà, e 4 figli, tutti maschi, di cui gli ultimi due gemelli. E loro mangiano un sacco! Ma i due più grandi sono dei grandi fan dei nostri gnocchi fatti in casa.
C’è Mangia-e-scappa, una specie di autorità nel campo della raccolta rifiuti. Magari vi fa ridere, ma ha un’azienda che organizza eventi per promuovere la pulizia di spiagge, parchi e la raccolta rifiuti in occasione di grandi eventi (concerti, festival, ecc). Ogni tanto compare in qualche giornale e ho l’impressione che guadagni molto bene. Non sottovalutate l’ecologia, né per importanza né come business!
E potrei parlarvi di Piccolo Pino, un’insegnante di danza del ventre, di Splendido, impiegato nel gruppo d’elite che progetta i nuovi shinkansen (i treni super rapidi giapponesi) ma che nel tempo libero si diletta di danze tradizionali (con abiti particolari che lasciano gli uomini praticamente con le chiappe al vento!), di Mr. Ombroso, che beve solo gin e mangia sempre in piedi appoggiandosi ad una delle botti del bancone. E via così.
Ognuno di loro vive una vita diversa e, condividendola con me, mi mostra aspetti diversi di un paese che ai vostri occhi probabilmente è il posto più esotico e strambo del pianeta, ma che una volta conosciuto, con tutte le sue particolarità è, tutto sommato, una società meno esotica e più simile a noi di quanto non si pensi. Ma il meglio, è sentirli “vicini” in un certo senso, interessati a cosa faccio, a come mi sento, a come sto vivendo il loro paese che per loro è tanto scontato, ma che visto dagli occhi di una straniera si rivela interessante persino per loro!
Una menzione particolare va fatta per il Capo: se fare salite inutili a Casadidio2 mi facesse incontrare persone così, le farei tutti i giorni! Lui ha vissuto in Italia (Palermo) e in Spagna (Malaga) per due anni: parla entrambe le lingue, anche se sul lavoro non le usiamo quasi mai, e, oltre a sapere come siamo noi italiani, pure lui non è un giapponese tanto normale. La sua famiglia è diventata un po’ la mia famiglia in Giappone. Lui si preoccupa per me come un fratello maggiore (Stai studiando? Tutto bene in casa? A che ora sei tornata ieri sera?) e anche sua moglie (stai mangiando abbastanza? Stai facendo una dieta equilibrata? Stai uscendo con qualche ragazzo?), mentre suo figlio, un diavolo di cinque anni che non sta mai fermo, un giorno all’improvviso ha detto che mi sposerà, guardandomi come se fossi tutto quello che desiderava nella vita… oltre al gelato alla vaniglia e al nuovo giocattolo di One Piece, intendo. Arriverà il giorno in cui imparerà che sposarsi è una cosa che si deve “chiedere”, non una decisione unilaterale, ma nel frattempo è stato tenerissimo!
Il primo anno ho passato un 28 Dicembre con tutto il parentame: fratello del capo, moglie del fratello, 3 figli, altri zii e nonni; insomma la cosa più vicina ad un Natale che potessi avere in un paese dove l’idea del Natale o non c’è, o si riduce all’appuntamento romantico col fidanzato. E l’anno scorso sono stati con me il giorno del mio compleanno, che avevo passato da sola l’anno prima, e mi hanno pure preparato la torta!
Dall’estate 2014 sono cambiate moltissime cose, e ora non sono solo queste persone a farmi sentire meno sola. Il mio giro di amicizie si è ampliato e, anche se il concetto di amicizia è diverso dal nostro, con alcune persone sto lavorando di pazienza per raggiungere un buon livello di confidenza o per abituarle ad un contatto fisico (abbracci, pacche sulle spalle, tenersi la mano). I 50 centimetri di raggio nei quali mi sentivo isolata sono diminuiti molto e con certe persone sono quasi del tutto azzerati.
Insomma, anche dai momenti difficili vengono fuori risultati positivi.
Sicuramente prima di partire somigliavo molto di più a quelle immagini che vedo spesso condivise sui social network: poca voglia di uscire, serata ideale con pantofole-tè caldo-film, rimanere sotto le coperte o sul divano anche quando gli amici propongono di uscire; mentre quel duro periodo mi ha cambiato. Certo ancora adoro guardare film, leggo molto e ogni tanto ci sta una serata sul divano (mobile che io non ho, in 15 mq di casa), ma più spesso esco e, sì, a volte esco anche da sola!
Avere a che fare con la gente è difficile, ancora di più lo è quando probabilmente il modo di pensare e di approcciarsi ad ogni aspetto della vita è diverso dal tuo, e questo non è certo un fattore che aiuta quando devi ricostruire un “impalcatura sociale” da zero. Ma una volta superate le prime difficoltà, conoscere nuove persone, scorgere altri tipi di vite, mondi, passioni, esperienze e modi di pensare, è un’avventura straordinaria. Ti sorprende ogni volta, ti apre gli occhi su cose a cui non avevi mai nemmeno pensato e ti dà così la possibilità di ampliare la tua mente e modificare il tuo modo di vivere riuscendo ormai a concepire nuovi orizzonti, più grandi di prima.
C’è un sacco di gente fuori dalla porta e a me le persone piacciono, piacciono tantissimo: qualcuno che vorrà chiacchierare con me ci sarà sempre. Perchè non importa essere all’estero o nel proprio paese: il mondo è là fuori dove ci sono anche tante brave persone.
Quindi: perchè non vedere se qualcuna di queste persone vuole entrare in quello spazio di 50 centimetri e condividere qualcosa con me?
Chi sono
6 Commenti
Grazie per aver condiviso la sua esperienza, Giulia. Mi sono ritrovato in diversi passaggi del suo racconto. Un racconto che credo renda bene dinamiche della vita vissuta in Giappone da tanti altri expat europei – specie da quelli che (come lei e me) sono arrivati qui per volontà propria, anziché su incarico di terzi. Inoltre mi sono piaciuti i suoi accenni sia al fatto che il Giappone, tutto sommato, non è così esotico come vorrebbero certi cliché nostrani, sia a come i giapponesi stessi, attraverso gli occhi degli expat, qualche volta riescano a vedere in modo nuovo alcuni aspetti del proprio Paese. Grazie ancora (e buona prosecuzione)!
Grazie a lei per aver letto con tanta attenzione il mio articolo.
E’ consolante sapere che tutto sommato, non sono l’unica ad esser passata per certe esperienze!
Ho chiesto a Donne Che Emigrano all’Estero di inoltrarle un mio messaggio di carattere lavorativo. Spero che lo riceva.
Articolo bellissimo, dai forza!
Grazie per aver letto!!
Ho incominciato a leggere il tuo racconto e ho smesso solo quando era finito.Molto bello e interessante…tanti auguri per la tua vita Giulia.