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Aiuto, mi sono tedeschizzata!

di Samanta - Jena DE
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Aiuto, mi sono tedeschizzata!

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“Mamma mia, ti sei proprio tedeschizzata!

“Non ti riconosco più. Ormai ti sei proprio tedeschizzata”.

Questa è una frase che, in cinque anni in Germania, ho sentito spessissimo. A pronunciare queste parole, davvero, c’era un caleidoscopio decisamente eterogeneo di persone. Tra questi spiccavano gli italiani che si sentivano traditi e altri espatriati che si dichiaravano scettici. I tedeschi, per parte propria, sembravano quasi rassicurati. Il fatto io conoscessi le loro abitudini e le rispettassi al punto da farle mie, insomma, li faceva stare bene. A dirla tutta, essere almeno un po’ tedeschizzata faceva stare meglio anche me. Mi permetteva di rimanere focalizzata sugli obiettivi più importanti. Allo stesso modo, mi dava l’impressione che tutto, o forse quasi, fosse raggiungibile con la giusta dose di sforzo e di tenacia.

“Io non ce la farei, a vivere in un posto così inquadrato”.

Mi avessero dato un centesimo ogni volta che ho sentito questa frase, ormai sarei milionaria.

Possiamo definire la Germania un paese “inquadrato”? Sì. No. Forse. È una contraddizione in termini, la Germania, fatta di burocrazia e di subcultura. A vederla dal di dentro, a viverla davvero, se ne notano le sfumature di grigio e le macchie di colore. Da un lato, infatti, ci sono masse di persone in giacca e cravatta. Dall’altro, poi, ce ne sono altrettante che considerano il proprio anticonformismo quasi fosse una medaglia all’onore. Essere tedeschizzata significa apprezzarli entrambi, considerarne pregi e difetti e ricordarsi che, spesso, la verità sta nel mezzo.

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Borsa di tela, leggins e canotta: essersi tedeschizzata significa anche lasciare l’haute couture a casa, quando si è in viaggio

L’assimilazione è un trucco da equilibristi.

Cercare una forma di equilibrio, più o meno stabile, tra paese natio e paese d’adozione non è semplice. Proprio per niente.

Da un lato, infatti, ci sono gli altri espatriati, italiani e non, che ti osservano giudicanti. Osservandoli a propria volta, si può notare il caleidoscopio di emozioni che li caratterizza. Sono diffidenti, un po’ invidiosi e a volte persino addolorati. Alcuni si sentono messi da parte, spesso addirittura traditi. Altri, inoltre, ti vedono così tedeschizzata e scambiano il tuo sforzo genuino per supponenza. Insomma, anche a provarci, accontentarli significherebbe fare un paio di passi indietro rispetto al proprio processo di integrazione e di assimilazione. La domanda da porsi, in questo caso, è semplice: “Ne vale davvero la pena?”. Al solito, la risposta, si potrebbe riassumere dicendo: “Sì. No. Forse.”

Non tutti i tedeschi mi volevano tedeschizzata.

I tedeschi, di fronte al nostro tentativo di assimilazione, si rivelano curiosi e un poco inteneriti.

Non tutti, intendiamoci. Alcuni ci ripeteranno di “tornare al nostro paese”. Altri chiuderanno un occhio perché “almeno tu non sei una maledetta polacca”. Anche sommassi tutte le cretinerie un po’ razziste che ho sentito, in ogni caso, il risultato sarebbe tutto sommato consolante. Credetemi: non raggiungerei mai al quantitativo di improperi che gli abitanti del ‘paesello’ in Italia borbottano alla vista della vicina di casa col velo.

Le generazioni più giovani, fatte di viaggiatori e poliglotti, sono tutta un’altra storia. Sono interessate, spesso più informate di noi espatriati. Conoscono Berlusconi, Renzi, Di Maio e hanno visitato almeno una città italiana della quale non sappiamo nulla. Ci invitano al famoso Kaffee und Kuchen (caffè e torta) e sorridono soddisfatti quando, alle 15:00 esatte, suoniamo il campanello con un dolce tra le mani. Insomma, ravvivano un poco le nostre speranze aprendoci una porta sul loro mondo.

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Essermi tedeschizzata significa anche aver imparato a soffermarsi su ogni dettaglio per apprezzarlo a dovere.
(Lustgarten di Berlino, Luglio 2018)

Tedeschizzata e in Italia: mai ‘na gioia.

Sentirsi ormai almeno un po’ tedeschizzata e tornare in Italia significa perdere la pazienza almeno un paio di volte al giorno.

Partendo dal gate dell’aeroporto, davvero, la nostra vita sembra trasformarsi in un’avvicendarsi di momenti comici e tragicomici. Le code per salire sull’aereo, dopo i controlli di sicurezza, si trasformano in serpentine oppure, a dimostrazione che siamo un popolo di inventori e artisti, in poligoni un po’ avanguardisti. L’attesa davanti ad uno sportello, spesso e volentieri, si trasforma nella prima tappa di una via crucis che, a volte, non porta proprio da nessuna parte. Alcuni impiegati, poi, guardano i tuoi documenti con sdegno e li richiudono al suono di: “Eh, signora, io non posso occuparmi sempre di tutto, però”.

Conforme al paradigma dell’italiano medio, sono stata trattata con il minimo sindacale di garbo solo dopo aver chiaramente fatto il punto della situazione. “Mia madre è un’invalida civile, si trova in ospedale da più di 40 giorni e ci stiamo occupando dei documenti per agevolare il suo ritorno a casa.” A quel punto, le cose hanno preso una piega un poco diversa. Persino le persone del ‘paesello’, quelle che mi credono snob e supponente perché estranea al loro ménage di sorrisi e salamelecchi, hanno fatto un passo indietro. Tutt’al più, mi chiedono il sempre attuale: “Ma la Germania ti piace? Eh, hai fatto bene…”.

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A volte, guardandomi indietro, mi rendo conto di essere sempre stata un po’ tedesca. Da tedeschizzare c’era proprio poco.

La tedeschizzazione ha un retrogusto amarognolo.

Di fronte a certi commenti un po’ beffardi e un po’ paternalisti, sorridendo amaramente, penso ad un libro che ho letto mentre ero a Lagos.

Seduta sul bagnasciuga, con i piedi ben fermi nella sabbia umida ma ancora tiepida, avevo trovato una storia con la quale immedesimarmi. È la vicenda di Samuele, un giovane uomo che lascia la Calabria per andare a vivere a Milano. Ad un certo punto, all’ennesimo complimento un po’ faceto con il quale si confronta, riflette sul tema della partenza:
“Andare, tornare, restare. A volte sono consigli, a volte imposizioni, a volte condanne. Ma è curioso notare come questo riguardi sempre gli altri. “Hai fatto bene”: chi è rimasto lo ripete con un preciso godimento, che facciamo bene a emigrare. A me fa sentire in bocca l’amaro della sconfitta, invece, e non la grinta dell’opportunità. Vorrei non essere costretto ad agitare il fazzoletto e a porgere i saluti alle mie montagne.” (Pierpaolo Mandetta – Dillo tu a mammà)

Essersi tedeschizzata è come avere uno zainetto sulle spalle.

Non so cosa ne sarà di me, ora come ora.

A volte, tra una corsa in ospedale e l’ennesimo colloquio di lavoro in Germania, sorrido amaramente e dico, guardandomi allo specchio: “Benvenuta nella Terra di Mezzo”. Ho progetti e idee che al momento si scontrano con difficoltà logistiche, problemi familiari e una serie infinita di incognite. Ho i piedi in due scarpe ben diverse per colore, taglia e, ovviamente, comodità. Insomma: ciò che sarà lo scopriremo solo vivendo.

Quello che ho realizzato, muovendomi per i meandri di due burocrazie, è che ormai tutto questo fa parte di me. Anche mi trasferissi in Malesia oppure in Congo, ci sono abitudini che rimarranno proprio mie. Il mio essere un po’ tedeschizzata, insomma, è l’ennesimo pezzo di bagaglio che mi porto sempre dietro. È una chiamata alle armi, un battesimo del fuoco, una grazia ed una maledizione al tempo stesso. È l’ennesimo pezzo di un puzzle che cambia forma con beffarda frequenza ma che, credetemi, finirò e incornicerò a dovere.

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3 Commenti

Giulia - Norimberga 27/06/2019 - 08:45

Ciao Samanta, bel articolo, frizzante e ironico. Mi sono ritrovata nelle tue parole “Borsa di tela, leggins e canotta: essersi tedeschizzata significa anche lasciare l’haute couture a casa, quando si è in viaggio” – è da molto tempo che neppure io ho più il tipico style italiano ;). Il coraggio e la tenacia di certo non ti mancano, quindi in bocca al lupo per il futuro e per la scelte che farai. Un abbraccio

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Samanta - Jena DE 27/06/2019 - 21:51

Ciao Giulia! Grazie mille per essere passata di qui e per le bellissime parole. Effettivamente, ogni volta che ritorno in Italia mi guardano tutti un poco straniti perché ormai vivo in canotta e leggins. Pure mia madre, di fronte alla borsa di stoffa, non è riuscita a tenersi. “Ma una borsa normale, di quelle un po’ belle, non te la puoi comprare?”. Una serie di tragicomici eventi ai quali, ormai, nemmeno faccio più caso…
Un abbraccio a te!

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Chiara - Parigi 29/06/2019 - 09:52

Bellissimo articolo, divertente e interessante! Dopo averlo letto posso dirmi fiera di essermi un bel po’ “francesizzata” 😁😁

Chiara – Parigi

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