Vivo fuori dall’Italia ormai da quasi vent’anni, prima a Capo Verde ed ora in Costa Rica. Dopo una laurea in Storia del teatro, la pubblicazione della tesi, il tesserino da giornalista e un lavoro da revisore di tesi di laurea, ho iniziato a sentirmi fuori posto.
Avevo idee che mi parevano chiare su quel che ritenevo giusto e quello che no, pensavo cose che mi parevano ovvie, come il fatto che l’acqua fosse un bene di tutti e che la Monsanto non avesse il diritto di monopolio sui semi, che la politica italiana fosse destinata a sgretolarsi e che la cultura stava per essere definitivamente inghiottita dall’imbecillità dei nuovi barbari, quelli uniformati e addestrati da un paio di decenni ad appiattire ogni cosa, dal senso del gusto a quello del bello, che non avere idea della stagione in cui maturano i pomodori non facesse bene alla salute e che l’horror vacui che portava centinaia di persone a trascorrere i fine settimana nei grandi centri commerciali non fosse sintomo di sanità mentale collettiva.
Soprattutto avevo chiaro il fatto che ero stufa di combattere. Vedevo il vuoto intorno. Questo mi dava un senso di nausea e impotenza, mi sentivo insieme forte e fallita. L’imperativo kantiano in qualche modo continuava ad ammonire, e sapevo che se ognuno si fosse comportato come se le sorti del mondo dipendessero da lui avrebbe sentito più forte la necessità della giustizia. Ero fuori posto. Dovevo cercare un mondo che mi assomigliasse.
La Costa Rica, un piccolo paese esempio per il mondo per lo sforzo antimilitarista, per il rispetto dell’ambiente, per l’attenzione all’istruzione per tutti, alla salute pubblica e all’uguaglianza, non è il paradiso, per il semplice fatto che il paradiso pare non sia ubicato sul pianeta terra, ammesso che sia ubicato da qualche parte, ma, se a piccoli sprazzi e momenti abbiamo un barlume di paradiso nel cuore, e’ proprio in paradiso che sentiremo di essere.