Oggi mi piacerebbe raccontarvi delle mie mirabolanti avventure su questa isola, ma se ho acceso il computer per mettermi a scrivere alle 5.30 del mattino e con due linee di febbre, è perché mentre cercavo invano di addormentarmi mi ha pervaso la testa un altro pensiero. Mio padre.
Chi mi conosce dirà: ma a cosa pensi, vai a dormire! Per chi non mi conosce invece, facciamo qualche passo indietro.
Nel settembre 2014 sono stata risucchiata da una specie di ciclone che mi ha staccato dalla mia vita serena in Nuova Zelanda, mi ha sbattuto in faccia dei problemi di cui prima non mi ero mai preoccupata, mi ha lanciato in Italia, mi ha riportato in Nuova Zelanda, poi di nuovo in Italia e infine, nell’aprile 2016, dopo due anni di turbolenze, mi ha fatto approdare qua ad Ibiza, dove vivo serenamente, seppur in maniera più sregolata di quando avevo 20 anni.
Questo ciclone è iniziato con la morte di mio padre, ha dato scosse ancora più forti quando è morta mia nonna e non ho avuto tregua fino a che non ho cominciato ad elaborare i lutti.
Essere in Nuova Zelanda, quando ho appreso di mio padre, credo abbia implicato il non assimilare bene la notizia. Non ho capito veramente cosa fosse successo, fino a quando non sono entrata in casa sua, la casa in cui sono cresciuta, e non sono andata sulla sua tomba il giorno prima di ritornare in Nuova Zelanda.
Lo so sono strana, ma queste cose ognuno le vive alla sua maniera e voglio raccontarvi come le ho vissute io.
Erano anni che non parlavo con mio padre, quindi ho sempre pensato che la sua morte non sarebbe stata una “botta”, ma se dopo che è successo me lo sono sognata per un anno, forse non è stata neppure una passeggiata.
Non sono mai andata d’accordo con mio padre. Forse giusto da bambina, perché avendo solo lui non avevo molte alternative. I tempi del liceo sono stati un vero inferno, ma a 18 anni ho provato l’ebbrezza dell’andarmene da casa, per la mia prima mini esperienza da expat in Svizzera, in cui ho passato un’estate a lavorare nel Buffet di una stazione dei treni. A 19 mi sono iscritta all’univeristà di Genova, sono andata a vivere con un gruppo di ragazze che non conoscevo, in una casa trovata su un annuncio in Internet. Quel giorno con le mie valigione c’erano due colleghe della Svizzera, che mi hanno accompagnato in un viaggio in treno di 5 ore, perché mio padre non aveva voglia di farsi 3 ore di macchina, per vedere la sua unica figlia dove se ne stava andando e con chi, per assicurarsi che andasse tutto bene. Questo è un episodio che racconto sempre per descrivere la totale mancanza di interesse che aveva mio padre nei miei confronti.
Mio padre è stato un padre assente, freddo, severo. Per carità, lo so che un uomo vedovo con una bambina piccola non avrà avuto una vita fatta di rose e fiori, ma penso che se ci fosse stato un po’ più per me, poi ci sarei stata anche io per lui. Invece no, un giorno stanca di questo rapporto che mi portava solo malessere, nervosismo e litigate, ho deciso di tagliarlo fuori dalla mia vita completamente. Era il 2010, anno in cui mi sono successe un sacco di cose, anno che ho tatuato dietro al collo per ricordarmi per sempre di quella data.
Quando sono partita per la Nuova Zelanda non gliel’ho neppure detto. Non so se poi l’abbia scoperto dai vicini, o se se ne sia andato senza saperlo.
Quando é arrivata quella telefonata di notte, il mio mondo di arcobaleni e unicorni neozelandesi si è fermato, mi ha fatto scendere e mi ha risucchiato quel famoso ciclone che mi ha sballonzolato per due anni.
Non ho avuto il tempo di capire che mio padre fosse morto, perché dall’altra parte del mondo dovevo affrontare tutte quelle cose burocratiche e pratiche che è difficile sbrigare già dal vivo, figuriamoci via email, skype e whatsapp, di notte dopo 12 ore di lavoro, perché per alleggerire il tutto c’era pure il fuso orario. Organizza la sepoltura, c’è’ la banca che vuole i soldi, il geometra che deve fare la successione, il padrone di casa che rivuole la sua casa, e fai il certificato notorio che si chiede in ambasciata. I primi mesi sono andati così. Tutte queste preoccupazioni non mi hanno lasciato il tempo di pensare a cosa fosse successo, a come stessi io, non ho avuto il tempo di cadere e rialzarmi perché dovevo andare avanti. In Italia mi hanno aiutato tantissimo, senza alcune persone che non c’é bisogno di nominare, non ce l’avrei mai fatta.
Poco dopo è venuta a mancare mia nonna, la persona che consideravo l’ultimo membro della mia famiglia in senso stretto, quella del mulino bianco che non ho avuto, diciamo, composta da genitori, figli e nonni. Questa si che è stata una botta emotiva! Mi son fatta dei gran pianti anche durante il lavoro. Dopo la sua morte sono rientrata in Italia (il capitolo nonna lo chiudo qui perché è un susseguirsi di misteri, che ancora neppure l’avvocato ha sbrogliato) e per un mese il ciclone non mi ha dato tregua. Ma è in quel mese che alla fine ho fatto pace con mio padre.
L’elaborazione del lutto, credo sia iniziata quando ho messo piede in quella casa disabitata da mesi, in quella casa in cui sono cresciuta ma in cui non entravo da anni. Ho dovuto aprire gli armadi, svuotare i cassetti, schivare ricordi di una vita che mi saltavano addosso uno dopo l’altro. Ho scoperto segreti, smascherato bugie, raccolto i pezzi di una storia che ormai nessuno mi può raccontare, l’ho riscritta come volevo io, nel modo in cui facesse meno male e mi piacesse di più. Ho scoperto un uomo diverso da quello che pensavo mi avesse cresciuta, un po’ meno carnefice e un po’ più vittima, ho capito che quell’uomo non sapendo affrontare le avversità della vita a testa alta, si è lasciato schiacciare dagli eventi, raggirare dalle persone e ha perso di vista quel piccolo dettaglio che consisteva nell’avere una figlia, la sottoscritta.
Il giorno prima di ripartire per la Nuova Zelanda ho deciso che fosse giusto andare al cimitero per prendere veramente coscienza della situazione. Ci sono andata sola, perché non volevo condividere con nessuno un eventuale momento di debolezza. Non sapevo la reazione che avrei avuto, non sapevo se mi sarei messa a piangere, ma nel dubbio ho preferito andare da sola.
Apriamo le scommesse: la Ines ha pianto o non ha pianto? Ragazzi, come una fontana!
Da quel momento ho smesso di sognare mio padre e a volte capita che dica qualcosa su di lui, che condivida con gli altri quelle poche cose buone che gli ho sentito dire nella sua vita. Mi sembra strano parlare di mio padre, perché non l’ho mai fatto, a parte quando raccontavo di quanto mi avesse fatto arrabbiare facendo una cosa o dicendone un’altra.
Credo che se fossi stata in Italia quando è successo, o se fossi rientrata appena me lo avessero comunicato, avrei elaborato il lutto in modo diverso, lo avrei fatto in tempi più brevi. Ma la vita da expat è fatta anche di queste cose, delle telefonate che piombano in piena notte mentre sei in un altro continente, dell’impossibilità di salire su un aereo per tornare a casa nel momento del bisogno, di scelte dure che ti ritrovi a fare, quando non sai se sia giusto camminare verso al tuo futuro, o lasciarti manovrare dal tuo passato.
Se mi vedi, se mi senti, se questi brividi di freddo me li stai dando tu, io ti dico che ti perdono. Per tutto quello che non sei stato, per la persona che mi hai fatto diventare. Alla fine l’ho capito che non eri cattivo, eri solo un debole. Ma sai una cosa? Dalla tua debolezza è nata la mia forza e ora che l’ho capito, ti perdono.
Chi sono
5 Commenti
Bellissima testimonianza! Grazie di averla condivisa. Sei molto coraggiosa e sicuramente tutto questo che hai dovuto passare ti renderà non solo più forte, ma anche migliore.
Un abbraccio
A.
Mi viene da piangere…. sii forte, si sente già che lo sei. Però questo tuo racconto è anche un monito, per chi ha ancora un papà, una mamma, a non lasciare che i silenzi ci allontanino più di quanto non facciano i continenti. Ogni volta che torno in Italia e rivedo i miei, provo strane sensazioni, ma sono un pietrificata e non le lascio andare via…poi torno in India e mi assalgono le paure della famosa telefonata, che spero non arrivi mai….
Anche io ho avuto un pessimo rapporto con mio padre, ma fortunatamente prima di partire all’estero, grazie ad anni di psicoterapia fatta in passato in Italia, avevo fatto pace con il passato. Cosi quando mi é arrivata quella telefonato, non c’era la rabbia ad attenderla, ma il dolore. Ti abbraccio forte.
Ciao tesoro! Ho letto tutto d’un fiato le tue parole!! Mi hanno lasciato un nodo al petto, ho una storia simile ma con mia madre.
Ancora viva e con moltissimi problemi psicologici, penso sempre a quando sara il momento…perche forse un po lo desidero ( piu per la vita di mio padre, succube della sua malattia).
E credo che quando non riesci a reagire prima, il dopo ti perseguitera’ tutta la vita! Poi ogni persona come dici tu vive le emozioni diversamente.
Ti ringrazio perché leggendoti mi hai fatto pensare tanto…e fortunatamente ho ancora possibilità di guardarla negli occhi.
Ti abbraccio forte forte..sei una grande donna, il sole arriva sempre dopo la tempesta e tu sono sicura , saprai attenderlo.
Con il cuore un bacio Liliana
ti assicuro che, nonostante tutto, il sole ce l’ho dentro 🙂