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Barcellona, un anno e un bilancio.

di Laura Cavalcante
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Sono quasi 26 (tra un mese esatto): il mio secondo compleanno lontano dalla mia vecchia casa, nella mia nuova vita.

Mentre scrivo sono le 20:03, c’è ancora il sole, la mia finestra è illuminata da un colore chiaro e dolce che sa di belle stagioni.

È la bella “temporada” di Barcellona che sta per iniziare.

-365 giorni fa a malapena ricordo com’ero. Certamente un’altra, un involucro inconsapevole ma affamata e amante della vita.

Ho lasciato la mia Sicilia, la sua bellezza un po’ maledetta dai cancri che l’affliggono, perché non c’era posto per chi volevo diventare, a livello lavorativo.

Ho preso un biglietto di andata senza conoscere la data del ritorno o sapere chi avrei incontrato, senza sapere se sarebbe stato eccitante, semplice o difficoltoso.

Niente, non sapevo niente (mi elettrizza non avere le risposte, sono curiosa dei cambiamenti).

Ho riempito una grande valigia rossa, di quelle rigide che quasi non riesci a sollevare, ho salutato papà nel piccolo aeroporto di Catania, gli ho detto “farò del mio meglio, mi porto tutto ciò che mi hai insegnato”.

Allora l’aereo si è staccato e mi sono staccata anch’io.

Sono arrivata a Barcellona che parlavo già un po’ di spagnolo.  

Ho iniziato il mio master in Digital Marketing in un’ottima università del posto, ho ascoltato le lezioni di grandi professionisti che venivano a raccontarci le loro professioni, di cui all’inizio mi sfuggivano abbastanza cose (non conoscevo il linguaggio tecnico del MKT e non padroneggiavo così bene la lingua).

Quando mia madre al telefono mi chiedeva se era tutto ok e se sapevo tutto, le rispondevo: “sì, certo”.

Mi arrabbiavo con me stessa perché non riuscivo a cogliere le sfumature di quella lingua che non era la mia, mi dicevano “è normale, lascia passare un po’ di tempo e vedrai che andrà meglio”.

Nel frattempo, iniziavano a dividerci in due gruppi da 6 per preparare un progetto di ‘Plan de Marketing’ per  un’azienda reale, che ci sarebbe costato il voto dell’esame finale davanti ad un ‘tribunale’ di professori.

Allora ho tirato su le maniche, ho iniziato a scrivere in spagnolo, assistito alle riunioni d’equipo in cui i miei compagni parlavano in catalano, loro lingua madre; settimana dopo settimana, le cose migliorarono.

Adesso il catalano è la mia terza lingua.

Il primo lavoro come stagista è stato in un’agenzia dove si realizzavano progetti digitali.

Io ero una junior project manager.

Diciamo che ci mettevo quasi tutto l’impegno ma non ero degna del titolo, non ero pazza del mio lavoro, ma continuavo a svegliarmi la mattina, andare in agenzia e cercare di fare al meglio il mio dovere.

Alle 19 le mie giornate lavorative finivano, poi toccava riprendere il computer e lavorare al progetto del Master che, nel frattempo, continuava durante i week-end (tutti i venerdì dalle 18 alle 22 e tutti i sabato dalle 9 alle 15).

Fino a quando il Carrer Service dell’Università mi dice: “ci sono due multinazionali, una di moda italiana e una di food interessate al tuo CV, vogliono conoscerti”. Inizio con quella di moda.

Vado in un bell’ufficio della zona più in dello shopping cittadino, vedo i poster delle campagne realizzate, gli stessi che vedevo da bambina nella mia Messina e mi fermavo ad osservare dicendo alla mamma “che belli questi bambini tutti diversi insieme”; entra un uomo alto che, senza brillare di eccezionale simpatia, mi dice: “possiamo parlare in italiano se vuoi” rispondo “no, parliamo in spagnolo”.

Finisce il colloquio, torno a casa, contenta di aver conosciuto una realtà d’impresa.

Mi chiamano qualche settimana dopo per propormi un contratto di stage di 6 mesi. Non faccio neanche l’altro colloquio con l’azienda di food, dico di sì.

Passa l’estate, lascio l’agenzia digitale, torno 12 giorni in Italia, tra Messina e le isole Eolie. Cammino a piedi nudi e respiro i tramonti di casa. Vedo le mie amiche e il mio miglior amico, mi carico di energie ed emozioni, mi faccio coccolare dalla mia famiglia, lascio che il mio battito si riabitui a quel ritmo lento della vita in Sicilia; ho qualche difficoltà, mi accorgo che certe discussioni, riflessioni, non le capisco più.

Mi accorgo che c’è un’altra me adesso, che cambio costantemente e non saprò mai chi diventerò domani.

Torno a Barcellona e comincio questi mesi di stageDurante i primi tempi mi muovo timida e in punta di piedi, facendo domande e chiedendo aiuto a chiunque.

Poi capisco che ai miei colleghi catalani non importa particolarmente aiutarmi, che devo “buscarme la vida” da sola, allora mi attivo e sprigiono luce, vado d’istinto senza pensare alla paura di sbagliare.

Alla fine dello stage, lo scorso Febbraio, il mio capo mi dice che vogliono che resti, “facciamo un contratto temporaneo fino a luglio e poi vediamo”.

Mi mandano nella sede centrale in Italia, per conoscere il team di Marketing, Digital e Comunicazione con cui mi sarei dovuta relazionare da quel giorno in poi.

Aumentano le responsabilità, quindi inizio a viaggiare per eventi ed incontri, commetto errori ma trovo una strada e li risolvo, magari non ci dormo bene la notte, ma questo importa poco al mondo.

E allora? Questo bilancio?

Ho finito il Master da un mese, tra qualche giorno ci sarà il “graduation day”, verrà la mamma, ci sentiremo orgogliose. Lei sicuramente più di me.

In quest’anno a Barcellona ho fatto qualche rinuncia, ho studiato, ho faticato, ma sinceramente non troppo: le fatiche sono altre…

Qualche notte non ho dormito, non ho sentito il mio cuore, qualche sera ho pianto, qualche altra mi sono fatta delle domande.

Qualche giorno ho avuto bisogno della voce di qualcuno di caro, qualche giorno mi è sembrato di essere entrata nel tunnel del lavoro-lavoro-lavoro e nient’altro, altre notti ho fatto le 6, ho conosciuto musei e artisti che mi hanno estasiata, ho mangiato-mangiato-mangiato, ho scoperto di essere una solitaria e ho scoperto di amarmi.

Ho scoperto di avere delle possibilità di scelta  – io, giovane e con poca esperienza – e che è bello essere libera di poterle usare nel lavoro.

Il consiglio per gli altri, dunque, Laura qual è? Andate tutti a vivere all’estero? Restate nel vostro paese?

Rispondo così: provate a trovare i vostri sì. 

E che sia dove li desideriate, vicino o lontano da dove siete nati. Se avete voglia di vita, di migliorare continuamente, correre, subire critiche, mettervi a disposizione di altri modi di pensare, se avete spirito d’adattamento e niente da lasciare (che non possa seguirvi) potete anche farlo in un altro paese.

Prendete una valigia rossa, rigida, grande e metteteci tutto il coraggio di cui siete capaci, l’amore in qualunque forma e colore lo abbiate, la pazienza e la paura, la bellezza e la libertà.

Peserà tanto, forse vi faranno pagare il supplemento al check-in, forse farà freddo tante, tantissime volte e non capirete perché costa tanto che arrivi l’estate. Ma sono pur sempre 12 mesi e 365 giorni, prima o poi arriva.

Arriva, fidatevi.

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2 Commenti

Lorena 26/04/2017 - 14:11

Ciao Laura, grazie per questo articolo. Io sto vivendo il mio primo anno in Canada e le tue righe finali sul freddo e l’inverno mi hanno colpito molto. Perché per me il freddo fuori, il buio dei mesi invernali è andato di pari passo con freddo e buio dentro di me. Pare sia arrivata la primavera ora.

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Lici 27/09/2017 - 22:17

Bell’articolo! Mi ci sono rotto ritrovata.

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