Leggere libri che profumano d’Italia… per ricordarci la nostra storia e la nostra identità e renderci ancora più ricettivi alla cultura della differenza.
“La bella di Cabras”, una storia di eros e thanatos nella Sardegna dell’Ottocento
“La bella di Cabras” è un romanzo pubblicato su L’Avvenire, fra il 1887 e il 1888, da Enrico Costa, autore del celebre “Il muto di Gallura”.
Inizia come una fiaba, questo racconto ambientato in Sardegna nel 1860.
In un paesino, Cabras, che si affaccia su un lago, con tutte le casette uguali, fatte di mattoni di argilla e paglia, abita Rosa, la più bella e la più buona fra tutte. Purtroppo, essendo, però, povera e orfana di madre e avendo altre due sorelle, essa si vede costretta ad andare a fare da serva in un paese vicino, Oristano, presso una ricca e blasonata famiglia.
Nel frattempo, il suo amato, bello ma anch’esso povero, si strugge per lei, nell’attesa di poterla sposare.
L’antagonista sembra, inizialmente, essere un giovane deforme, con la gobba, che, invaghitosi di Rosa, usa la lingua come il bandito il fucile: attraverso le sue strofe in rima, accettate dalla comunità come la voce senza freni del “folle”, egli svela la verità degli eventi, che l’ipocrisia mal cela.
L’orco tentatore qui è troppo umano per essere cattivo e troppo vigliacco per essere un eroe. È un principe senza coraggio, che rispetta le convenzioni sociali che pongono un muro invalicabile fra i ricchi e i poveri, fra gli istruiti, i cui discorsi si farciscono di citazioni latine, e gli incolti, per i quali la legge è sempre, alla fine, un inganno.
“… bianco come la luna il suo cappello
come l’amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue l’aquilone.”
Superate le analogie con la struttura decodificata propria della fiaba, il romanzo ben si iscrive nella letteratura ottocentesca nella quale il narratore onnisciente educe sui fatti, introducendovi note di carattere storico, etnografico e antropologico e affermando, soprattutto negli interventi diretti al lettore e permeati di ironia, la propria visione dell’uomo e della storia.
Non sono “canne al vento” di deleddiana memoria e neppure “promessi sposi” in un altro lago, i vividi personaggi campidanesi descritti da Enrico Costa, anche se per anch’essi vige il fato e la colpa che deve necessariamente essere espiata. La provvidenza viene citata due volte nel testo, ma il vento del potere, che soffia da epoca ad epoca, non piega, ma sradica, rubando il più debole e inghiottendolo nel proprio vortice.
La bellezza, inizialmente simbolo neoplatonico di bontà, diventa marchio del peccato di Eva, colei che, per amor di conoscenza, si lasciò sedurre dal serpente e, a causa di ciò, condannò se stessa e la sua progenie alla cacciata dall’Eden.
Rosa è troppo bella, troppo pura, troppo ingenuamente irresistibile, troppo desiderosa di vivere: la sua storia è destinata a sfumare nella leggenda e nel monito per le altre fanciulle.
“… questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.”
Un romanzo interessante, con un piglio storico – analitico, basato sul confronto con le descrizioni della Sardegna offerte dai viaggiatori settecenteschi, che mai dimentica di avvincere il lettore con descrizioni sapienti e con colpi di scena.
Cit. da “La canzone di Marinella” di Fabrizio De Andrè
Emma Fenu
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