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Da Bruxelles: torno per fare il medico in Italia

di Katia
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Da Bruxelles:

torno per fare il medico in Italia

laila-bruxellesTestimonianza inviataci da Laila.


Questa non è una vera e propria storia di expat, è la storia di un processo di autodeterminazione e libertà di scelta.

A lieto fine?

Sono Laila, ho 30 anni, sono un medico all’ultimo anno di specializzazione in medicina interna, e ho sempre vissuto tra la mia città (Caserta) e Napoli, un luogo che mi è rimasto nel cuore, ma dal quale ho sempre  cercato di fuggire.

Per anni ho avuto l’impressione che la mia vita cominciasse altrove: non ho mai saputo bene dove, ma avevo come l’impressione che ogni luogo in cui potessi lavorare e vivere, fosse tanto più interessante quanto più alto era il numero di chilometri che ci separavano.

Ho sempre guardato con profonda ammirazione ed un tocco di invidia chi si accingeva a lasciare tutto e partire, non per tentare fortuna altrove – io non sono fortunata né così imprevedibile e interessante – ma per lavorare meglio, per mettersi in gioco, o solo per mettere il naso fuori.

Così, mentre vivevo la mia vita dietro un vetro, un pomeriggio di giugno che non dimenticherò mai, mi sono imbattuta in un articolo scientifico molto interessante.

Ho contattato l’autore per proporre un periodo di formazione in una scuola di Terapia Intensiva, a Bruxelles, certa di non ricevere mai risposta, ma almeno con la coscienza pulita per averci provato. E invece, alle 9 del giorno dopo, la risposta arriva e quella porta si apre.

Da lì comincia un periodo di studio intenso, di incredulità, di entusiasmo e di paura, di lotte universitarie per ottenere il consenso,  di lezioni di francese (io che sapevo dire solo “ Bonjour), di preparazione.

Sapevo bene da cosa stessi scappando in quel momento: dalla mia immobilità, da un periodo difficile in cui avevo bisogno di dimostrarmi che la vita doveva ancora cominciare, da una realtà lavorativa che non ti stimola, a meno che non sia tu talmente motivato da costruirti i tuoi stimoli, dalla mia perenne insoddisfazione emotiva, dalla tristezza e dalla malinconia che spesso mi caratterizzano.

In poche parole, credevo nella promessa di liberarmi da me stessa e dal pesante bagaglio emotivo che mi porto dietro, certa che la partenza mi avrebbe fatto rinascere come mi sono sempre immaginata: indipendente, libera, coraggiosa, solitaria. 

Così arriva luglio e con due valigie pesanti, un ristretto vocabolario di francese in testa, una preparazione in medicina interna che non aveva nulla a che vedere  con la Terapia Intensiva che mi accingevo a fare (in uno dei centri migliori in Europa), atterro a Bruxelles, dove sarei rimasta per 9 mesi.

E’ tutto un vortice di incredulità e scoperta: era estate e il clima era particolarmente buono, conosco subito un gruppo di colleghi, tra cui anche molti italiani, e comincia la maratona di birre, conoscenze, gite domenicali, esperienze lavorative nuove ed emozionanti, anche se estremamente dure e difficili.

Ero certa d’aver trovato il mio posto nel mondo, di essere a un passo dalla donna ideale che sognavo di essere.

Poi arriva l’inverno, il primo rientro a casa che lascia tanta nostalgia, il grigio di un cielo che è schivo, la ricerca costante in tutti gli scorci delle voci e del chiasso della mia via dei Tribunali. Ma Bruxelles è elegante e riservata; l’unico rumore che puoi sentire in certi pomeriggi di novembre è quello del tuo cuore nelle orecchie quando cammini incappucciata, di fretta, sola, è buio e ci sono 0 gradi e tu non sei abituata a tutti quei chilometri e a tutto quel freddo e a tutto quel silenzio.

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E il lavoro? Giornate di 12 ore lavorative, tutti i giorni, dove ho imparato e appreso l’impossibile, ingoiando pillole amare di inadeguatezza per la difficoltà estrema di esprimermi in una lingua che, per quanto esercitassi ogni giorno, non era la mia.

Questo blocco espressivo riguardava tutte le sfere: dire la mia opinione riguardo un paziente in un’altra lingua mi rendeva lenta e impacciata, scambiare due chiacchiere in pausa pranzo, per quanto tecnicamente mi riuscisse grazie a un vocabolario un po’ più fornito, più che un piacere, diventava un esercizio spossante mentalmente.

Tornavo a casa esausta alle 9 di sera, e avevo solo il tempo e l’energia per dormire e ricominciare un’altra giornata identica.

Cominciai ad avere nostalgia di casa, della mia vita prima, il bisogno di prendere un telefono e chiamare una persona che mi conoscesse da anni, la necessità di esprimermi senza il filtro di un idioma che conosco poco, per permettere a chi mi era davanti di conoscermi davvero, di conoscere le sfumature della mia personalità e delle mie idee, che vengono tramortite e uccise nella traduzione in una lingua che per quanto potrai conoscere bene, non sarà mai la tua.

Ero stanca di volti che conoscevo appena; e anche quando uscivo per prendere un po’ d’aria, l’estraneità di tutto quello che vedevo quasi mi offendeva, sembrava ricordarmi che ero fuori posto.

Mi crollò il mondo addosso: per quanto l’esperienza lavorativa, seppur sofferta, mi stesse dando tanto e avessi scoperto di voler prendere la strada della terapia Intensiva malgrado avessi scelto un altro indirizzo, per quanto fossi circondata da gente nuova e stimolante, per quanto avessi anche stretto qualche rapporto un po’ più autentico, il mio pesante bagaglio emotivo che pensai di aver perso all’aeroporto di Bruxelles mi era stato restituito, e caduto sulle spalle mi accorsi che avevano cortesemente aggiunto qualche piccolo extra.

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Ero sempre la stessa, con le mie malinconie, le mie insoddisfazioni, le mie attese.

Ma, questa volta, quando uscivo a cercare aria non c’era più il vecchio incrociato a Piazza Dante a Napoli in una sera di autunno, che guardando la mia tristezza negli occhi mi disse “signurì, facit un sorriso che la vita è bella”; non c’era il sole, né la voce di un amico che sapesse bene cosa mi passasse per la testa, senza il bisogno di dirlo in un’altra lingua, ma neanche in italiano.

Questa volta c’ero solo io e la consapevolezza di aver aspettato tutta la vita un cambiamento che ho cercato in un altro luogo fisico, e che avrei trovato solo nella  comprensione e accettazione di quella che sono realmente.

Tra due mesi la mia esperienza qui finirà e tornerò a casa con un bagaglio pieno di nuovi amici, di esperienze lavorative di altissimo livello,  immagini di luoghi bellissimi, il gusto di migliaia di varietà di birre e cioccolata, una lingua nuova, la consapevolezza di voler diventare un’ Intensivista.

Soprattutto, lungo il tragitto ho abbandonato il bagaglio più pesante: quello delle aspettative verso me stessa, della necessità di fuga, dell’idealizzazione di una me che esiste solo nella mia testa.

Mi ero costruita una gabbia dorata nella quale mi guardavo vivere e mi giudicavo senza pietà.

Bruxelles mi ha aiutato ad accettare l’idea che sono una persona indipendente quanto basta per decidere un pomeriggio qualsiasi di partire da sola per una città sconosciuta; ambiziosa quanto basta per scegliere di fare una clinical-research fellowship nel centro di Terapia Intensiva migliore d’Europa pur essendo un Internista, in una lingua semi sconosciuta; forte quanto basta per restare sola anche nei momenti peggiori, senza cercare mezze compagnie o compromessi.

Ma soprattutto, sono una persona che ha bisogno degli altri e  della compagnia di chi mi conosce da una vita, degli occhi di mia madre e di mio fratello, del cielo della mia città, di sentirmi a casa; per cui il lavoro è tanto ma non tutto, che a volte è triste e non c’è un motivo, e va bene così, non bisogna essere sempre contenti.

E che tornare a casa e lavorare nel proprio paese è una scelta, e come tale è libera e coraggiosa, perché è un passo verso se stessi, con le proprie debolezze, i propri bisogni e l’accettazione della propria vulnerabilità. 

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9 Commenti

Chiara - Parigi 09/02/2019 - 12:22

Brava Lailetta ❤️
Come già ti ho detto, non rimpiangere mai questa scelta coraggiosa che hai fatto. Ti ha lasciato un bagaglio di esperienza di cui farai tesoro per tutta la vita e che ti ha resa consapevole di ciò che vuoi veramente. E se in questo momento il tuo cuore ti dice di tornare, non può che essere la scelta giusta. Il cuore dice sempre la verità per quanto a volte la ragione possa prevaricare.
Ti abbraccio forte

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Laila 09/02/2019 - 12:33

Grazie mille chiaretta! So che tu puoi capire bene cosa sento e cosa ho vissuto. L’importante è riuscire ad essere, nei limiti del possibile, sereni. Un bacio!

Rispondi
Loredana 11/02/2019 - 10:14

Bravissima, condivido pienamente

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laila 11/02/2019 - 23:58

Grazie Loredana!

Rispondi
Isabelle Morel 11/02/2019 - 11:37

Complimenti! Sei una ragazza fantastica!

Rispondi
laila 11/02/2019 - 23:57

grazie mille dicuore!

Rispondi
Elisa Scarpetti 11/02/2019 - 17:27

Grazie per aver condiviso con noi la tua esperienza. Ho ritrovato molto di me stessa nelle tue parole (anche io expat a Bruxelles): lungo il tragitto ho abbandonato il bagaglio piu pesante: quello delle aspettative verso me stessa, della necessità di fuga, dell’idealizzazione di una me stessa che esiste solo nella mia testa.
Non sono arrivata ancora ad una tale consapevolezza, ma spero accadrà un giorno.
Ti auguro il meglio, con tutto il cuore

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Mari 11/02/2019 - 17:30

Mi hai emozionata tanto Lalla. Il peso di quel cielo grigio, a chi ha il sole negli occhi, a volte é soffocante. In bocca al lupo doc.

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Ilaria 11/02/2019 - 23:57

Hai fatto bene a spingerti oltre per seguire i tuoi sogni e le aspirazioni. Purtroppo la nostalgia della propria città e dell’Italia è un fattore comune a molti expat, mi hai ricordato la me stessa di 10 anni fa che ritornò in Italia dopo un anno e mezzo a Malta. Adesso vivo a Bruxelles, da circa un anno, dopo averne trascorsi 6 a Lisbona. Mi piace la città, ma la realtà è piuttosto complicata. Ti faccio un grande in bocca al lupo.

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