Tutti abbiamo la nostra Bubble
La mia vita ad Addis Ababa, Etiopia, Africa
Oggi volevo parlavi della Bubble.
Ognuno, qua, ha la sua Bubble.
È quel posto sicuro in cui stai e vivi la tua vita normalmente, a dispetto di tutto quello che succede fuori. Almeno, questa è la mia interpretazione personale di Bubble.
Nella Bubble non entra lo smog, l’inquinamento, gli odori pungenti. Non entrano i mendicanti, non entrano quelli che fanno pipì per strada, non entrano quelli che ti rubano il telefono. Non entrano lo sporco, il disordine, la povertà, le guerre.
Ogni expat ha la sua Bubble. Nella Bubble ci sono il lavoro, i colleghi, la famiglia, gli amici.
Nella Bubble molti hanno l’autista, la tata, la donna delle pulizie, il guardiano della casa, il giardiniere, la cuoca e sicuramente altre categorie di lavoratori che al momento mi sfuggono.
Dalla Bubble si esce poco e, quando lo si fa, spesso è per entrare nella Bubble di qualcun altro.
Di sera ho visto che si esce più facilmente dalla Bubble: come se fossimo tanti zombie che durante il giorno si nascondono nelle Bubble invisibili e di notte escono per ritrovarsi nei locali.
Di giorno non si vedono Ferenji (stranieri), ma se poi vai il lunedì sera al club Fendika, ne è pieno!
Io mi chiedo sempre questa gente dove si nasconda, di giorno. Nella Bubble invisibile, ovviamente! E poi vedi un sacco di Habesha (etiopi) alla moda, e mi chiedo anche dove si nascondano loro, di giorno! Ve l’ho detto, siamo zombie che escono dalle Bubble segrete ed invisibili.
Tu, in realtà, non stai vivendo in Africa. Non affronti i problemi reali che toccano la gente locale, vivi nella Bubble.
Un ambiente internazionale che, in un certo senso, bypassa le condizioni normali in cui si trovano gli altri, ovvero la luce che va via, la lavatrice che non c’è, l’acqua che finisce, code interminabili per salire su un mezzo pubblico che somiglia più a un carro bestiame.
La mia Bubble in realtà non è mia, ma è della persona che mi ha chiamato a lavorare qua ad Addis. Infatti, io la chiamo la F. Bubble.
Mi ci ha fatto entrare subito, e adesso ci passo la maggior parte del tempo. Stiamo nella sua macchina, nel suo negozio, nel suo ufficio, nella sua casa, con la sua famiglia. A volte rimango nella Bubble anche quando ci sono i suoi amici. Insomma, sono diventata la quarta figlia… o il secondo cane!
Quelle volte che faccio le cose da sola, dico che esco dalla F. Bubble ed esploro il mondo, un po’ per volta, a modo mio e coi miei tempi.
La prima volta che una ragazza italiana mi ha chiesto di vederci, sono andata un po’ nel panico perché dovevo prendere un taxi da sola di sera.
Lei lo sapeva che ero impaurita, così si era offerta di venirmi a prendere benché il mio indirizzo non fosse a lei di strada. Alla fine mi sono fatta coraggio e mi sono lanciata in questa nuova esperienza, ma sempre con la speranza di non ritrovarmi in qualche situazione pericolosa.
Prenoto il Ride (Uber locale), l’autista mi chiama e mi chiede in che parte della città mi trovo. Panico. “Che ne so, segui il GPS!”, penso. Arriva il Ride, salgo, macchina scassatissima, il tipo parla un inglese pessimo, non sa seguire le indicazioni di Google Maps, si perde svariate volte.
Dopo 25 minuti mi porta a destinazione, e figuratevi che la destinazione era a soli 5 minuti da casa. Ogni volta che esco e prendo un Ride è un’avventura, ma fortunatamente ne sono sempre uscita viva. Come dicevo l’altra volta, ci si abitua.
Sono uscita un po’ di volte dalla Bubble in occasioni come andare a cena, bere qualcosa e, addirittura, a sentire musica dal vivo. Ho conosciuto gente che lavora principalmente in ambasciate e organizzazioni internazionali, europei, nordamericani e sudamericani. Gente che ha vissuto in un sacco di paesi e che ha tante storie da raccontare. Un po’ come quando sono andata in Marocco dalla Silvia (altra autrice di DCEE), anche lei aveva la sua Bubble e mi sembrava di respirare un’atmosfera Erasmus.
Prima della mia partenza, molte persone hanno detto peste e corna riguardo alla mia decisone di partire per l’Etiopia. Anche ora che sono qui continuo a sentire battute infelici.
Credo sia impossibile immaginare la vita in un paese come questo, anzi vi assicuro che non è proprio possibile.
Non lo capisco neppure io che sono qua da un mese e mezzo, figuriamoci chi lo ha visto solo in tv o magari lo ha appena sentito nominare. O ancora peggio, chi vi ha soggiornato in qualche resort turistico 5 stelle.
Se non avete mai messo la testa fuori dalla vostra zona di comfort, se non conoscete questo posto, se non siete mai stati in un paese in via di sviluppo, forse sarebbe meglio ascoltare, per comprendere.
È noioso sentire sempre le stesse cose. Stereotipi e pregiudizi a gogo. E il mangiare, e la gente, e questo e quello e quell’altro. Ma che ne sapete, voi!
Neanche io sapevo niente su questo paese, ma ho provato ad intraprendere una nuova avventura e ora sono contenta di essere qua, con la mia Bubble, con le piccole-grandi difficoltà che incontro ogni giorno, le stranezze, i contrasti, le diversità, con la curiosità di un bambino che non smette di fare e farsi domande, per capire e per scoprire. Confrontandomi con un mondo che ancora non riesco bene a decifrare e che mi fa arrabbiare almeno un paio di volte al giorno, perché vedo in continuazione situazioni che per i miei parametri non sono giuste.
Negli ultimi anni ho vissuto in due dei paesi con la migliore qualità di vita al mondo.
Ad Auckland, il primo appartamento l’ho condiviso con 12 persone. A Toronto ho vissuto in un appartamento vuoto, dormendo su un materasso sul pavimento, con i comodini fatti con gli scatoloni del vino e un divano in salotto (unico mobile presente) che i miei coinquilini avevano ritirato direttamente dalla strada, di fianco a un bidone della spazzatura.
Cosa voglio dire con questo? Che l’Africa poi non è così male, se la vivi dalla tua Bubble.
Sicuramente, se qualcuno vi chiama per offrirvi un lavoro qua, non è per mettervi a vivere in una capanna su un albero, né per mandarvi al lavoro su un cammello, né per farvi lanciare con le liane e attraversare i fiumi. La gente non va in giro con i piattini incastonati nelle labbra e nemmeno coperta con le foglie come Adamo ed Eva. Hanno vestiti e scarpe. Si pettinano più di me.
Non vi fanno venire in Africa per farvi espiantare gli organi. Voglio dire: in questa città ci sono 5 milioni di abitanti, c’è forse bisogno di pagare il volo dall’Italia a qualcuno per rubare un cuore o un rene?
Siate un po’ meno bacchettoni, che quando finisce l’emergenza Covid c’è tutto un mondo là fuori.
Non precludetevi delle possibilità per colpa dei pregiudizi. E soprattutto, non rovinate con la vostra negatività l’entusiasmo altrui.
Guardate meno televisione e vivete di più! Ishi እሺ
Chi sono
8 Commenti
Articolo interessantissimo! Le prospettive degli espatriati in Africa (e spesso anche in Asia) sono un ottimo modo per rivalutare la realtà che ci viene propinata dai media o dalle dicerie di chi pensa sempre di sapere tutto. Ricordo i racconti di un lontano parente che lavorava in Brasile negli anni Settanta, il figlio di un mio studente a Jena ci vive tutt’ora: anche loro hanno sempre parlato, a modo proprio, della Bubble. Era proprio interessante, sentirli parlare!
Grazie per aver condiviso la tua esperienza con noi.
grazie per avermi letto 🙂 mi fa piacere che il tema interessi.
Ciao sei stata coraggiosa, io non so nemmeno cosa siano le Bubble, mi potresti spiegare il significato, sarò un po’ ignorante,ma meglio chiedertelo. 🙄🙂
l’intero pezzo parla della bubble. o non lo hai letto o non mi sono spiegata! 🙂
La Bolla, dove puoi sentirti protetta e che “conosci”. Io una volta ho scritto un pezzo sul fatto che, certe volte, anche qui a Barcellona, stanca delle polemiche indipendentste etc, mi rifugiassi in una bolla di expat vari. Ovviamente non è assolutamente la stessa cosa, ma ha un’idea simile di “distacco” dalla realtà circostante. Grazie per questo scorcio sincero. Hai ragione, non si può giudicare fino a che non ci siamo dentro. 🙂
brava hai capito 🙂
❤Recepito!!!
Che la vita ti sorrida 😉
Ciao Ines,
sei molto coraggiosa! e a anche molto fortunata. Pensa come ti sembrerebbero difficili le cose che vedi e che non capisci e non concepisci, se non avessi già una sicura bubble di riparo e transizione. La ricostituiamo tutti questa bubble quando emigriamo all’estero, figuriamoci quanto questo diventi fondamentali in Paesi meno avvantaggiati, dove tra l’altro il divario è reso anche più acuto da tutta la corsa alle varie tecnologie che tutti oramai ovunque diamo cosi per scontata! Le sfide nel quotidiano sono ingenti e svariate e sembra troppo spesso che si avanzi male e poco e facendo estrema fatica. Non può sembrare sulle prime, ma tutto questo lavoro interno ed esterno di adattamento continuo richiede e comporta un carico di stress che è molto differente dal tipo di stress che si patisce in un altro genere di espatrio. Quindi se mi posso permettere di darti un consiglio, prendi un momento, ogni giorno per centrarti e ricaricarti.
Un grande in bocca al lupo per tutto!