Quanto vivere all’estero possa influire sul nostro stato emozionale e’ ormai chiaro e indiscutibile. Quanto io ero psicologicamente pronta a questo cambiamento e’ appurato, ma nonostante tutto ancora oggi il mio corpo non si e’ ancora fisiologicamente abituato alle differenze. Il motivo per cui mi trovo a scrivere questo post e’ legata alla mia incapacità di adeguarmi al cibo che in Nuova Zelanda per qualche strana e misteriosa ragione sembra essere “ipercalorico”.
Premettendo che nella mia vita sono sempre stata mediamente normopeso, mai sportivamente motivata e fortunata quel tanto che basta per permettermi un alimentazione non proprio dietetica senza aumentare enormemente di peso, oggi mi trovo a dover mangiare come un uccellino, o meglio, questa e’ la mia percezione riguardo al problema.
Arrivo da una famiglia dove mia madre e’ cuoca, dove mio nonno era cuoco e dove per anni a Natale, a Pasqua e ad ogni festa comandata a casa mia c’era un pranzo o una cena di venti portate, compresi fritti, lasagna, arrosto e dolci vari.
Se chiudo gli occhi posso ancora mentalmente assaporare il ragù di mia nonna, la zuppa di pesce di mia madre e i fritti di mio nonno, nei miei ricordi affiorano quelle domeniche di festa quando mi svegliavo tra gli odori che arrivavano alle sette di mattina dalla cucina, quel tepore famigliare e quel rumore di pentole e chiacchiere che precedevano l’assalto alla tavola a mezzogiorno e mezza.
La mia mente ancora vaga in quei ricordi, che ormai fanno parte della storia, quegli attimi che non torneranno piu. La Nuova Zelanda non regala nessuna gioia culinaria, qui non c’e’ una cultura basata su minuziosi dosaggi e una varietà di alimenti. Il piatto nazionale e’ la bistecca, o l’agnello o qualsiasi altra carne cotta alla griglia con verdure varie di contorno. Senza parlare dei dolci, principalmente composti da torte asciutte con sopra la crema al burro, che loro tra l’altro adorano. Per il resto l’alimentazione e’ basata su vari take away, cinese, indiano o il tailandese di turno, modificato secondo il gusto nazionale.
A casa si fa quel che si può, ci si ingegna con gli alimenti che si trovano sul mercato, si perde piano piano la voglia di determinate cose che si mangiavano abitualmente in Italia, si perde un po’ l’abilita’ di saper cucinare quei piatti che prima erano “cosi’ semplici” insomma si inizia un processo di adattamento volto alla sopravvivenza. Il corpo umano dicono si adatti e si plasmi rispetto all’ambiente che lo circonda, e Darwin ci ha chiarito dal canto suo questo concetto in un modo piuttosto esplicativo. Per quanto mi riguarda il mio corpo ha deciso di adattarsi prendendo kili in più come risposta a un cambio radicale di alimenti basilari.
Sono arrivata a pensare che qui in Nuova Zelanda qualunque alimento di mangi sia proporzionalmente piu’ calorico del corrispettivo italiano, qui ogni cosa contiene un enorme quantità di zucchero, farine e grassi aggiunti, a questo punto ipotizzo anche l’acqua dal rubinetto. Qui la gente e’ mediamente sovrappeso e come risposta aboliscono il burro e lo sosostituiscono con la margarina, evitano lo zucchero nel caffè ma poi mangiano ogni venerdì un cheesburger take away, soffrono di diabete ma non possono evitare la torta al cioccolato.
Il parametro di misura tra me e loro e’ ancora una volta diametralmente opposto. Io mi considero per la prima volta in vita mia leggermente sovrappeso ma per loro sono magra. Io corro ai ripari cercando soluzioni alternative e evitando pane e pasta, e loro non vedono la necessita’ di abolire il “venerdi dei dolci” a lavoro. Io mi trovo spesso a sognare con i miei amici connazionali la pizza con il prosciutto, la mortadella, il pesce e i crostacei e loro pensano che la mozzarella sia quel formaggio a coriandoli pieno di burro nella busta al supermercato. Insomma mentre io ancora mi domando come mai acquisto peso pur non mangiando più tutti quegli alimenti apparentemente grassi che mangiavo in Italia, loro vivono felici nell’inconsapevolezza dei loro errori alimentari. Insomma sono al bivio dove si necessita’ un cambiamento radicale di stile di vita, o una resa alla continua e inesorabile caduta nel baratro.
La percezione che si ha del proprio corpo e delle proprie abitudini alimentari arriva da lontano. Fa parte anche questo del bagaglio culturale, influisce sulle lenti attraverso cui vediamo il mondo, altera la visione di noi stessi e la percezione dell’altro. Per noi italiani il cibo e’ spesso un fattore fondamentale della socializzazione e del sentirsi bene, e’ uno dei capisaldi della vita, ma vivendo all’estero spesso si perde nei ricordi insieme alle mille altre cose davamo per scontate ma che non ci sono più.
2 Commenti
Ciao,
tu non sai quanto queste parole mi suonino familiari. Mai come ora che sono finalmente tornata a Roma da un mese dopo 3 anni tra Nuoava Zelanda ed Australia!!! Ho lottato tutto questo tempo per cercare di mantenermi in forma con grandissimi sacrifici. E’ stato un grandissimo sforzo capire che spesso non dipendeva dalle mie scelte alimentari ma da quello che poteva avere una sembianza “sana” era invece insito di farine e zuccheri super lavorati.
Da un mese che non ho più dolori allo stomaco e fisicamente torno ad essere quella che ero.
Ho sofferto tantissimo. Tanto da voler finire la mia esperienza laggiù per riprendermi la mia vita. Dopo una serie di analisi, ho scoperto che in Oceania sono permessi degli usi di Sulfiti che in Europa sono vietati. Ti auguro di riuscire a preservare quell’amore per il cibo che ci fa essere Italiane ovunque. Portatelo con te. Sempre ed ovunque.
Condivido in pieno e ti capisco. E come te non ho trovato ancora una soluzione finale. Quello che posso dire è che da gran cuciniera che ero, dopo un anno di resa totale ( forse perchè i miei primi tentativi di cucinare italiano qui sono stati frustrati dalle opinioni negative delle persone con cui ho vissuto o forse perchè ho trovato via via piu’ difficile trovare generi alimentari di mio gradimento qui alle isole Chatham) ho ricominciato adesso a tirare fuori qualche “arma” (piatto) di successo. Forse ci vuole un po’ per riemergere dall’immersione in un’altra cultura che, vuoi o non vuoi, ti sovrasta.