Quando il Covid19 arriva senza bussare
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Sono una persona pessimista?
C’è chi pensa positivo e chi pensa negativo. Ci sono gli ottimisti e i pessimisti.
Non riesco ad identificarmi come pessimista, perché il termine stesso mi suggerisce l’immagine di una persona mogia e ricurva: non vede nessuna speranza per il suo futuro e grugnisce e bofonchia lamentele incomprensibili.
Non mi vedo così perché appaio sempre con il sorriso stampato: mi considero una persona estroversa, socievole e a tratti iperattiva. Eppure, quando mi trovo di fronte a qualche difficoltà, il mio cervello non dipinge mai scenari rosei, ma sempre quelli più apocalittici. Per fortuna mio marito, che si chiama Alberto, è un ottimista nato.
Perché tutta quest’introduzione?
Durante la quarantena redassi un post sul come mi sentissi in quel periodo. L’avevo scritto il 17 marzo, nonostante per ragioni di calendario fosse stato pubblicato più avanti. Scrissi: “Adesso invece ho paura. Magari ce l’ho già e sono asintomatica.” Avevo pensato di cancellarla perché temevo mi portasse male (eh sì, sono pure scaramantica: ora vi starete chiedete se hanno già provveduto a candidare mio marito per la santificazione), però poi me ne ero scordata.
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Non dirlo che poi si avvera
Lavorando come guida turistica al Palau della Musica Catalana venivo in contatto tutti i giorni con turisti da ogni parte del mondo. Avevo così paura di poter essere una portatrice del virus che, fortunatamente, vidi i miei genitori (in visita a Barcellona) sin da subito a distanza, per poco tempo e con mascherina io e loro, nonostante per molti si trattasse di un’esagerazione.
Mentre in Italia si osservava già la quarantena, qui in Spagna si facevano ancora battute sul virus, giudicato come una banale influenza anche dai professionisti del settore (l’11 marzo mi rifiutai di dare la mano ad un medico settantenne per “il suo bene”e mi trattò come se fossi una psicopatica). Io ero stressata perché svolgevo la mia professione senza nessuna protezione (nonostante disinfettassi qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani) ed ero tartassata di messaggi di amici italiani che, coscienti della gravità della situazione, mi scrivevano: “Mettiti in malattia”,” Stai a casa”,”Obbliga i tuoi datori di lavoro a farti lavorare con la mascherina”. Il 12 marzo scrissi alla mia capa che avrei voluto lavorare con la mascherina, ormai non ne potevo più.
Il 13 marzo, grazie al cielo, anche il governo spagnolo emise il decreto sullo stato d’emergenza dando inizio alla quarantena e io potei stare a casa, finalmente. Ma era troppo tardi.
Il 19 marzo io e Alberto iniziammo ad avere i primi sintomi. Sì, me l’ero proprio tirata!
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Negare l’evidenza
Ripensandoci, mi fa ridere vedere quante giustificazioni mi inventassi al tempo, pur di non credere che i sintomi fossero riconducibili al virus del momento.
Alberto ebbe sin da subito una febbre bassissima (tranne due giorni, quando raggiunse i 38 gradi), mentre io cominciai a tossire. Entrambi notammo che il nostro intestino non stava bene, ma inizialmente demmo la colpa dell’episodio a un formaggio che avevamo consumato. Io, che a volte soffro di acidità di stomaco, leggendo alcuni articoli sul web mi autoconvinsi che la mia tosse (che non ho mai) fosse causata proprio dal reflusso gastrico.
Comunicai i sintomi alla mia amica Loredana, cardiologa, che già durante l’ultima settimana al Palau aveva iniziato a scrivermi preoccupata, date le condizioni ad alto rischio di contagio in cui lavoravo.
Lei sostenne sin da subito che si trattasse di Covid19, mentre io invece speravo ancora che non lo fosse (per una volta cercavo di essere ottimista, o forse sarebbe più appropriato dire negazionista, in questo caso).
Poi fu la volta di capire perché avessimo un mal di testa e di occhi fortissimo. Scartata l’ipotesi che fosse per le troppe ore davanti al computer, una notte mi svegliai con l’illuminazione. Chiamai Alberto e gli dissi che sapevo quale fosse l’origine del nostro mal di testa lancinante: la sinusite! Lui scoppiò a ridere e si girò dall’altra parte del letto.
Il quarto giorno lessi un articolo sulla perdita dell’olfatto: annusammo la boccetta dell’alcool, ormai onnipresente nelle case di tutto il mondo, e scoprimmo che non eravamo in grado di percepire nessun odore. Da quel momento non avremmo avuto olfatto e gusto per tre settimane: qualsiasi cosa mangiassimo sapeva solo di cartone.
Ormai il verdetto era chiaro.
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Niente, ce lo siamo presi
In Catalogna in presenza di sintomi bisognava chiamare il numero di emergenza 061, che era intasato: ci dissero che ci avrebbero richiamato ma non lo fecero mai. Senza darmi per vinta, telefonai subito al nostro Cap, l’ambulatorio del medico di base. Da quel momento in poi i medici ci avrebbero monitorato telefonicamente chiamandoci quasi tutti i giorni.
Dopo sei giorni io stavo piuttosto bene (tosse, problemi intestinali e mancanza di sensi a parte), però entrambi avevamo addosso una stanchezza terribile.
Le chiamate con i medici finivano sempre con un avvertimento: “Mi raccomando, se avete febbre alta o una crisi respiratoria, chiamate l’ambulanza“. I miei sintomi erano comunque lievi e, se non si fosse trattato di una malattia di cui si sapeva poco, avrei dato loro poca importanza. I medici però non osavano sottovalutare niente e ci mettevano in guardia sulla possibilità di un peggioramento improvviso. Quindi, proprio tranquilla non stavo.
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Quando ti improvvisi videomaker per distrarti
Il compleanno di mio padre sarebbe stato il 27 marzo, e l’avrebbe trascorso in quarantena con mia madre nel mini appartamentino di 30 metri quadrati che hanno a Barcellona. Per risollevargli il morale contattai zii, cugini e amici perché ognuno registrasse un mini video di auguri, poi io e Alberto avremmo montato il tutto.
Intanto, in tutte le videochiamate giornaliere con mia mamma, io facevo la splendida: tossivo come una pazza ma quando lei me ne chiedeva la ragione io le rispondevo dando la colpa all’allergia primaverile. Preferivo mantenerli all’oscuro della nostra condizione di malati.
La sera prima del compleanno io e Alberto, bianchi, magri e in pigiama, registrammo il nostro video di auguri: a chi della famiglia lo vide sorse qualche dubbio sul come stessimo, come ci confessarono mesi dopo.
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Ops, è arrivato l’affanno: però entra in scena il saturimetro!
L’ottavo giorno dall’inizio dei sintomi, ovvero il giorno del compleanno di mio padre, lui ricevette il video e si commosse, mentre Alberto si svegliò in preda al temuto affanno, da cui la mia amica cardiologa ci aveva messo in guardia. Lei sosteneva l’esigenza di misurargli l’ossigeno con un saturimetro, ma il famoso aggeggino era ormai introvabile.
In preda alla disperazione, andammo in un laboratorio privato a fare un tampone (che avrebbe confermato la nostra positività): lì ci misurarono l’ossigeno e ci auscultarono, dicendo che fosse tutto normale, ma non ci fecero una buona impressione.
Infatti l’affanno di Alberto peggiorava. Loredana continuava a ribadire che avremmo avuto bisogno del saturimetro per misurare l’ossigeno in vari momenti della giornata.
Scrissi a sei persone tra amici e colleghi chiedendo loro di chiamare farmacie e negozi vicino casa loro per capire se ne restasse qualcuno disponibile. Dopo due ore un’amica ne aveva già trovato uno che sarebbe arrivato l’indomani, e una collega ne aveva scovato un altro disponibile al momento.
La collega lo acquistò, un secondo amico tramite la app di Glovo ne organizzò il ritiro e la consegna a casa mia e il pomeriggio l’avevo già tra le mani. L’unione fa la forza: ero davvero grata a tutti loro per essersi mobilizzati così velocemente e per averci aiutato.
Iniziai anche un intenso di scambio di messaggi con Paola, autrice di Donnecheemigranoallestero, che era in balia dei sintomi. Leggevo spesso i suoi post perché scrive benissimo, ma non ci conoscevamo tanto: ad oggi continuiamo a sentirci e ormai la considero un’amica.
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Il walking test come punto di svolta
Il giorno seguente Loredana ci chiamò e ci fece fare un walking test (camminare con il saturimetro al dito): ad Alberto segnò improvvisamente un valore troppo basso.
Sia Loredana che Eva, una pneumologa italiana residente a Barcellona (di cui avevo il contatto perché anni fa avevo lavorato con suo marito) mi invitarono a chiamare urgentemente l’ambulanza che, in pochi minuti, si presentò sotto casa. Eva mi consigliò di suggerire agli operatori sanitari di inviare Alberto all’ospedale Vall d’Hebron, perché ancora dotato di posti letto disponibili, piuttosto che al più vicino Sant Pau, ormai collassato.
Ed eccoci lì in strada, insieme: io piangendo in pigiama con le palpitazioni a 120, lui salendo sull’ambulanza.
Vi ricordate l’introduzione sul pessimismo e l’ottimismo?
Quando dissi ad Alberto che sarebbe venuta l’ambulanza lui era incredulo, perché nonostante l’affanno non gli sembrava che la situazione fosse grave e pensava che, essendo piuttosto giovane, si sarebbe ripreso senza problemi.
Io invece avevo trascorso due notti insonni sentendolo ansimare e immaginandomi gli scenari più terribili.
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Lui ricoverato e io vivendo in un tempo sospeso
Alberto trascorse le prime 24 ore su una sedia in pronto soccorso con altri sospetti Covid19: molti stavano peggio di lui, per cui era convinto che l’avrebbero rimandato subito a casa. Nonostante la mascherina e la tosse che affliggeva tutti, ricorda ancora come il senso dell’umorismo per alleggerire la situazione non mancasse mai. Dopo tutte quelle ore gli comunicarono che lo avrebbero ricoverato perché, nonostante le analisi del sangue fossero abbastanza buone e non avesse più la febbre, la lastra mostrava un inizio di polmonite.
Rimase ricoverato per quattro giorni “sotto osservazione”(respirando sempre da solo) e lo trattarono con i farmaci usati a fine marzo (provali tutti, magari qualcuno funziona), ovvero: idrossiclorochina, antibiotici e remdesivir.
Avevano deciso di tenerlo sott’occhio per la paura che potesse peggiorare da un momento all’altro, visti i troppi casi di gente che sembrava stare bene e si aggravava improvvisamente.
E io?
Quei quattro giorni me li ricordo come un “tempo sospeso”. Non piangevo, guardavo solo film e serie comiche, dormivo poco e avevo lo stomaco chiuso per la tensione. Ogni giorno ricevevo messaggi e chiamate da mio fratello, le mie cugine, la mia migliore amica e altri. Ai miei non avevo ancora detto niente ma, al secondo giorno di ricovero di Alberto, mio fratello mi invitò caldamente a farglielo sapere. Mi feci forza e glielo dissi, cercando di tranquillizzarli il più possibile.
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Entra in gioco anche la vicina
Data la mia appurata ipercontagiosità non volevo assolutamente uscire o avere contatti, ma avevo bisogno di sali minerali e fermenti per il mio intestino distrutto.
Scrissi così un biglietto in cui chiedevo di andare in farmacia al posto mio e lo misi davanti alla porta della vicina. Bussai e le gridai di non toccare il foglio. Non la conoscevo perché si erano trasferiti da poco, e sapevo solo che si trattava di una coppia della nostra età con una bambina piccola. La vicina suonò alla mia porta poco dopo con i prodotti che le avevo chiesto e un biglietto di accompagnamento.
Ancora una volta, mi commosse l’estrema solidarietà di quel periodo. Il biglietto riportava il seguente messaggio:
Ciao Caterina, sono Susana, la tua vicina. Non ti preoccupare per i soldi, me li darai. Se hai bisogno di qualsiasi cosa mi dici. Il mio numero è: … Prenditi cura di te.
Da quel giorno Susana mi ha scritto spesso per informarsi su come stessimo, e da quando ho saputo di non essere più contagiosa facciamo spesso due chiacchiere sul pianerottolo.
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Welcome back!
Il 3 aprile Alberto tornò casa: non aveva più avuto la febbre e respirava un po’ meglio.
Lui è asmatico, mentre io ho come punto debole il sistema digestivo: sembra che a me il virus abbia attaccato soprattutto lì. Dal 4 aprile in poi iniziammo a sentirci meglio. Ci dedicammo ad alcuni miei progetti personali che avevo lasciato in stand by, tra i quali montare uno studio di registrazione per lo speakeraggio da casa. Ripresi anche a fare yoga, nonostante la tosse non mi permettesse di respirare profondamente. Stavamo “bene”, nonostante il fastidio di sapere che l’imprevedibile virus fosse ancora con noi.
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Convivendo con il virus 1, subentra il virus 2
Il 15 aprile iniziai ad avvertire un dolore tra le scapole, come se qualcosa mi attraversasse la schiena.
E sapete a cosa pensai?
Al reflusso!
E ridaje!
Questa volta avevo letto che poteva causare dolori intercostali; forse però dovrei smetterla di cercare risposte su internet.
Due giorni dopo mi scoppiò un’eruzione cutanea fastidiosissima sulla schiena e sull’addome, mentre il dolore diventava sempre più forte. Contattai il medico che mi continuava a seguire per il Covid19, e lui a sua volta chiamò l’ospedale dove era stato ricoverato Alberto. Dissero di non trattarmi nel caso fosse una lesione cutanea causata dal Covid19.
Non lo era. Era il virus dell’herpes zoster, comunemente detto Fuoco di sant’Antonio, che si deve curare entro le prime 72 ore.
Passai altri giorni di stress tra pareri medici discordanti: chi diceva che avrei dovuto agire subito e chi preferiva non pronunciarsi essendo io affetta da Covid19. Una dermatologa mi confermò la diagnosi di zoster e io, spaventata all’idea di non uscirne più, iniziai a prendere i farmaci nonostante fosse ormai tardi. Escludendo la prima settimana di dolori (il virus attacca il nervo), bruciori e notti insonni perché non sapevo in che posizione stendermi, le altre due settimane furono più che accettabili. Ci mise più tempo a passare ma, dopo un mesetto, l’eruzione cutanea e il dolore erano completamente spariti.
Ce l’avrebbe fatta la nostra eroina a non prendere un terzo virus?
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La risalita
La risposta è sí.
I medici comunque ci avvertivano di non abbassare la guardia e continuarono a ripeterlo fino al 27 maggio, quando, tramite l’esecuzione di un tampone pubblico, ci confermarono l’avvenuta negativizzazione. Non conoscendo la malattia, non si sbilanciavano mai con un “adesso potete stare tranquilli”.
Ci trascinavamo dietro qualche strascico del virus. Dopo tre mesi, a fine giugno, i miei problemi di intestino finirono. La tosse mi accompagnò fino all’ultima settimana di giugno, ma ancora oggi ogni tanto ho lo stimolo irrefrenabile di tossire e spero che prima o poi mi passi.
Adesso mi sto dedicando a riprendere peso: se non vi siete stancati di infornare torte, pizze e focacce, mandate pure a me, che devo recuperare il tempo perso!
Alberto é stato incluso in uno studio sul Covid19 dell’ospedale Vall d’Hebron per cui a fine luglio gli effettueranno una Tac e un esame sotto sforzo.
La mia amica Paola ha creato questo sito Covidpatientsnotrecovered dedicato a coloro che non si riprendono completamente e che continuano ad accusare sintomi per un lungo periodo di tempo.
Se siete tra quelli, nella sezione “Share your story”, potete leggere testimonianze di esperienze simili e condividere la vostra storia.
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Grazie
Lungi da me voler suscitare reazioni di compassione con questo post perché, ripeto, abbiamo avuto il virus in fase lieve e non è minimamente paragonabile all’inferno che devono avere vissuto certe persone. Però l’incertezza di non sapere come potesse evolversi ci ha fatto vivere alcuni momenti con inquietudine, motivo per cui voglio davvero ringraziare tante persone per aver alleggerito il tutto con la loro presenza.
Grazie a Loredana Nunno che ci ha seguito fin da subito e continua a rispondere alle mie domande anche adesso (un’altra candidata alla santificazione). A Eva Polverino la pneumologa e a suo marito Martin. Ai miei genitori che, una volta saputo, ci sono sempre stati. Ai miei suoceri, a mio fratello Stefano, sua moglie, i nipotini, a mia cugina Valentina per tranquillizzarmi mentre caricavano Alberto sull’ambulanza, a Lotty, a Paolo e Debora, ai miei zii, a mia cognata Miriam, che durante i giorni del ricovero non hanno smesso un attimo di starmi e starci vicino con chiamate e messaggi. A Paola per la condivisione, a Susana la vicina, alla mia collega Mireia per il saturimetro, alla mia amica Julie che l’aveva trovato, a Marco che me l’ha consegnato e mi ha fatto la spesa, alla mia super amica Vale, a sua mamma, a Chiara, che hanno sempre avuto una parola di conforto. Alle Alessandre, ai Marco, alla mia regista Caterina, a Giulia, a Federica, a Francesca, Maria, a tutti coloro (e sono tanti) che l’hanno saputo un po’ dopo e sono stati lontani e vicini allo stesso tempo. E a Katia e alle autrici di donnecheemigranoallestero.
Chi sono
14 Commenti
Nel tuo racconto non è mai mancata una nota di leggerezza ma mentre lo leggevo non ho potuto fare a meno di pensare che siete stati forti e coraggiosi. Io che sono un’inguaribile fifona ho davvero apprezzato questo tuo atteggiamento e tutto il racconto e credo che lo terrò a mente nel caso mi capitasse e mi farò forza pensando a chi come voi ci è passato e ne è uscito. Ciao e forza !
Ciao Solare, grazie per il tuo commento. Sono contenta sia sia percepita un po’ di leggerezza, era proprio la sensazione che volevo trasmettere, senza cadere ovviamente nella banalizzazione dell’accaduto. Forza anche a te e un abbraccio!
Grazie per aver condiviso la vostra storia, Caterina. ❤️
Siete stati due eroi, come tanti altri in questo periodo.
Ciao Rossella, grazie per il tuo commento. Eroi non credo, io sono stata più una fifona che altro 😛 Però è anche vero che ripensando a quel periodo ricordo l’angoscia che sentivo, eppure non mi ha impedito di fare tante cose. Abbiamo sempre una grande forza nascosta. Ti abbraccio!
Urka.
Quando ci sei dentro ti sembra di vivere un brutto film, nonostante cerchi di stemperare la tensione con l’ironia e un atteggiamento positivo.
Chiaro che ne esci segnato…
Sembrava di viverlo, grazie per la testimonianza.
Ciao Irina, grazie per il tuo commento. Sí, hai detto bene. Quando parlo del tempo sospeso, è proprio come se si trattasse di un brutto film. Ti abbraccio!
Io sono stata testata a inizio giugno per sospetto contagio avvenuto sul luogo di lavoro. Mentre la responsabile era tranquilla e credeva fosse assolutamente normale e legittimo pretendere che io continuassi a lavorare, davvero, avevo il terrore addosso. Non vivendo da sola e lavorando con il pubblico mi sentivo come una bomba a orologeria.
Quando ci hanno confermato i risultati – negativi, per fortuna – ho preso fiato. Per un attimo, visto che spesso qua vedo colleghi amici e sconosciuti dimenticarsi di comprirsi il naso o infilare le mani ovunque.
Un grosso abbraccio a voi due! E grazie per questo resoconto onesto, a tratti doloroso e incredibilmente importante da condividere. Leggerlo significa conoscere. Conoscere significa imparare. E, soprattutto ora, non si impara mai abbastanza.
Samanta
Ciao Samanta, grazie per il tuo commento e la bella riflessione. Sono contenta il risultato sia stato negativo, ma posso immaginare lo stress e la paura di lavorare in quelle condizioni, soprattutto se ancora adesso si continua a non prenderne coscienza. Un abbraccio grande anche a te!
Ciao Caterina.
Grazie mille per questo post 🙂 Mi ha piaciuto molto la tua ironia in questa situazione che non era facile di niente che vivere, tanto con il Covid se stesso, ma anche con i tuoi genitori o il tuo lavoro. Io, che ti conosco bene, ho potuto intuire tutto lo che avete vissuto in ogni momenti, a un ritmo incredibile, con momenti di felicita e di stress intenso. Con la tua passione di sempre e le tue preoccupazioni (anche di sempre). Ci mando un abbracione forte.
Ciao Julie, grazie a te per il commento e le belle parole. E bravissima per questo italiano che tra un po’ diventa seconda lingua eh 😛
Caterina , tu non sei pessimista, sei altruista ! hai saputo raccontare la vostra brutta storia in maniera diretta precisa e ironica .
Siete una coppia favolosa e mi piacerebbe conoscervi di persona
abbraccione Bru
Ciao Cinzia! Grazie per il tuo commento. Dai, allora mi convinco. Però lamentona lo sono, lo conferma il marito spagnolo 😛 Anche a me piacerebbe tantissimo. Alberto l’Indonesia la tiene puntata da un po’, quindi prima o poi… e saresti la prima a saperlo. Un abbraccio!
Che bell’articolo, Caterina. L’ho letto solo ora, siete stati bravissimi e, per fortuna, tutto è bene quel che finisce bene.
Ciao Maria Luisa, grazie e grazie per il commento. Sí, menomale 🙂