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Donne che Emigrano all’Estero untold (Pt. 2)

La verità oltre lo stereotipo

di Samanta - Jena DE
Le donne che emigrano all'estero partono con lo zaino in spalla e poco più

Oggi lasciamo la parola ad altre tre Donne che Emigrano all’Estero. Senza perdersi in fronzoli di alcun tipo, queste donne fantastiche ci raccontano degli alti ma anche dei bassi che hanno caratterizzato il loro espatrio. Disoccupazione, barriere linguistiche, condizioni climatiche difficili. Eppure loro ce l’hanno fatta, senza mantenimenti di sorta, stringendo i denti. Un esempio, il loro, che ci ricorda quanto sia facile puntare il dito e, al contempo, quanto sia complesso rimboccarsi le maniche. Allo stesso tempo, ci rammenta di quanto sia importante, anzi vitale, farlo: per noi e per chi verrà dopo di noi.

Daniela da Dortmund: “Anche le Donne che Emigrano all’Estero devono fare i conti con molte difficoltà”

Daniela dortmundMi sono trasferita in Germania nel 2018. Mio marito era già partito l’anno prima ed io ero ancora impegnata con l’esame di abilitazione alla professione per diventare a tutti gli effetti psicologa. I primi mesi non sono stati per niente semplici. A parte la distanza ed il cercare di capire cosa fare e come farlo, la lingua rappresentava un grande, grandissimo problema. Ho frequentato il liceo linguistico e sono sempre stata appassionata di lingue straniere ma pensavo, erroneamente, che, dopo essermi messa a studiare psicologia ed averle abbandonate, non sarei stata più in grado di riprenderle. In realtà forse non avevo la pazienza e la voglia. Vivevo, inoltre, in una condizione di mancanza di accettazione. Eravamo soli e lontani dalle famiglie, non capivo nessuno e vivevamo in un monolocale in cui per forza di cose mi ritrovavo chiusa tutta la giornata, mentre mio marito lavorava. Mandavo curriculum, sia in Italia che in Germania, con la speranza che qualcuno mi rispondesse. Dall’Italia mai nessuno, dalla Germania quasi tutti, nonostante scrivessi in inglese. Avete presente poi come quando nei film succede quella cosa che ti cambia la giornata (o forse la vita)? Così è stato. Un corso di tedesco fatto a lavoro da mio marito, dove ha conosciuto un’insegnante e le ha parlato di me e così ho iniziato con loro anche io. Avevo la sensazione di essere tornata bambina ed una conoscente, in Italia, mi disse anche “wow sei tornata alle elementari” vedendo quello che stavo studiando. Si, ero tornata alle elementari e la sensazione non era bella. Mi chiedevo ogni giorno cosa ci facevo lì, perché mi dovevo sforzare di capire ed imparare quando potevo mollare tutto, tornare a casa mia e parlare come sapevo fare. Poi guardavo i miei compagni di corso… alcune persone molto più grandi di me, che non avevano altra scelta. Io una scelta ce l’avevo e mi lamentavo. Loro no. Così sono andata avanti, e ce l’ho fatta, una, due, tre volte. Ho fatto corsi, consulenze, conosciuto persone, parlato con loro e stretto amicizie bellissime. Ho partorito qui, durante la pandemia, ho trovato un lavoro, proprio come lo volevo e da sola, con le mie forze. Di certo i problemi che si affrontano restando in Italia sono diversi da quelli che si affrontano espatriando all’estero, su questo non c’è dubbio. E mi sono chiesta più volte se fosse più difficile restare o partire. Ma una risposta non c’è. Ognuno di noi è diverso ed ognuno sceglie di vivere la propria vita, come gli pare e piace, con tutte le difficoltà che ne conseguono. Perché chi non ne ha?!

Lisa da Saskatoon: “Le donne che Emigrano all’Estero sanno ricominciare da capo”

Come sono finita in mezzo alle praterie canadesi?

La mia avventura in Canada ha inizio quasi dieci anni fa a Vancouver, città che ho scelto ed amato profondamente. A Vancouver, tra una lezione di Italiano ed una passeggiata a Stanley Park, ho incontrato mio marito, ragione per cui mi sono trasferita a Saskatoon. A Saskatoon ho trascorso i cinque inverni più freddi della mia vita. Si perchè qui la neve dura sei mesi all’anno e le temperature possono raggiungere i – 40 gradi.

lisa-saskatoon-donne-che-emigrano-all-esteroCome fai? Io non ce la farei mai a quel freddo! Ma un posto più vicino non c’era?”. Sono queste le domande che mi sento ripete ogni volta in Italia. In realtà, in questa città così estrema, non sono morta di freddo come molti pensano.  Qui ho intrapreso un nuovo percorso universitario, estremamente stimolante. Qui ho detto addio al mio “posto fisso” e, mettendomi in gioco, ho iniziato una carriera diversa, nella quale oggi mi riconosco. Qui sono diventata mamma di una piccolo mostro che ha deciso di nascere il giorno del mio quarantesimo compleanno. Grazie a lei ho scoperto, cari Amici, che dopo i quaranta si può morire di sonno.  Tutto rose e fiori? Assolutamente no. Soprattutto all’inizio quando ho dovuto ricominciare tutto da capo.

Dove vedo il mio futuro? In Canada, in una città meno fredda e magari dove io possa trovare il mio amato stracchino. 

Elena da Londra: “Per chi persevera, le opportunità di farcela ci sono, a qualunque età.”

Parte della mia famiglia d’origine è composta da emigranti.
Tali lo erano i pro zii paterni, che lasciarono il loro paese in provincia di Bari (Conversano) alla volta dll’America. E tale lo era mio papà che avrebbe voluto seguirli ma al quale mia nonna, non lo permise. Lui allora parti’ alla volta di Milano, dove poi conobbe mia mamma, milanese di adozione ma nata nella provincia di Como.
La voglia di partite l’ho maturata nell’adolescenza, anche grazie allo studio dell’inglese, lingua che ho sentito mia sin dagli inizi.
elena-londraMilano e l’Italia mi sono sempre stati strette, come se non vi appartenessi, sebbene via sia nata e cresciuta. Lasciare però il lavoro, la casa, la macchina e poi il gatto era un rischio che senza certezze non mi sono sentita di correre finché non ebbi l’opportunità di trasferirmi a Londra con la stessa azienda. Non me la feci scappare.
Partii quindi con la sicurezza di un lavoro ma lasciando tutto alle spalle. Gli inizi furono un po’ in salita: casa da condividere, mentre a Milano vivevo da sola, una sola amica, collega di lavoro, un modo di lavorare/interagire diverso. Poca cosa però perché avevo lasciato alle spalle una società e mentalità per me soffocanti per trovare me stessa.
Ricordo ancora come se fosse ieri il mio arrivo: i colori, gli odori, la gente e soprattutto il senso di libertà di essere, che provo ancora oggi.
Ho ricominciato da zero, a 34 anni: in affitto, per la prima volta; senza macchina; senza gli amici di sempre. Ma da quel giorno ho vissuto in pieno. Ho incontrato il mio ex marito, dal quale ho avuto mia figlia. Il divorzio mi mando’ quasi in bancarotta, così come la battaglia giudiziaria, da lui iniziata e persa, per avere un contatto con la bambina, mai negato, in realtà dettato solo dal suo bisogno di mettersi in regola (essendo extra-comunitario). Ho poi incontrato il mio ex compagno, dal quale ho avuto mio figlio. Lui se ne andò quando il piccolo aveva nove mesi.
I figli li ho cresciuti da sola, lavorando a tempo pieno e, per un periodo di cinque anni, anche viaggiando tutti i mesi.
Mi sono trovata senza lavoro, uno choc al sistema per chi ha sempre avuto un’occupazione. Mi sono adattata, ho fatto la commessa per cinque mesi finché non ho trovato di nuovo impiego nel mio settore.
I miei genitori, il cui aiuto economico mi ha tenuto a galla per anni, alla fine si sono rassegnati alla mia lontananza. Lasciati quando erano ancora in forza fisicamente, a ogni rientro erano più curvi. Mio papà mancò dopo una lunga malattia e fui presente quando successe; mia mamma invece si spense all’improvviso.
La mancanza fisica è in un certo senso attenuata dall’abitudine del vivere lontano ma quella emotiva si fa sempre sentire, soprattutto quella materna, più recente.
In parallelo con la mia vita personale, Londra e la società sono profondamente cambiate in questi 25 anni.
Una volta si trovava lavoro facilmente: la crisi del 2008, Brexit e poi Covid hanno fatto sì che sia più difficile. Ma per chi persevera, le opportunità di farcela ci sono, a qualunque età. Il sistema di trasporti è eccezionale ma anche molto caro. L’auto non è indispensabile ma per chi ne ha bisogno, i costi sono elevati sia come assicurazione sia per girare in città sia per parcheggiare. Socializzare richiede una sincronizzazione di diari e impegni che nemmeno al lavoro e, se non bevi alcolici, la strada è in salita. La criminalità “spicciola”, tipo furto di cellulare fino a quella più “seria”, legata allo spaccio. Per chi ha Netflix, suggerisco la serie “Top boy”, che rappresenta molto bene la realtà difficile di chi vive nelle case popolari senza speranza e fin da ragazzino entra in un giro criminale. L’uso “facile” di coltelli, con giovani ragazzi che perdono la vita a volte per una lite banale. Il razzismo che, nonostante l’integrazione, serpeggia sottile e insidioso. Le difficoltà a relazionarsi in una città dove si va sempre di corsa. Temi certo comuni a tutte le grandi città.
E’ una citta’ dove è possible realizzarsi, dove scegliere de partecipare o meno. Ci sono teatri, grandi e piccoli/alternativi; musei (gratuiti); gallerie d’arte; ristoranti che offrono le cucine più svariate; negozi (quasi) sempre aperti; gli studi discografici; le compagnie di produzione. E ancora: il Tamigi, che “taglia” la città in due; la City, il quartiere finanziario dove lavoro io; i monumenti; Buckingham Palace; il Parlamento; il Big Ben; la ruota.
C’è una città dalle mille facce, che non dorme mai, che è sempre in evoluzione/espansione, che in una giornata di sole si mostra in tutta la sua bellezza e ti fa innamorare di più, tanto da perdonarle anche il cattivo tempo.
Londra, una città che non è per tutti ma che la mia anima da emigrante ha la fortuna di chiamare sua.

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