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Donne che Emigrano all’Estero Untold (Parte 1)

La verità al di là dello stereotipo

di Samanta - Jena DE
Le donne che emigrano all'estero partono con lo zaino in spalla e poco più

Donne che Emigrano all’Estero offre da ormai quasi dieci anni storie di espatrio, di rivincita, di libertà. Allo stesso modo, offre resoconti onesti e spesso un po’ malinconici di ciò che si cela dietro la parola Expat. Lo fa senza filtri, spesso anche senza inibizioni. Parla di espatrio, insomma, senza nascondersi dietro imbellettature di sorta.
In un mondo che ci vuole instagrammabili, pronti a fare balletti o challenge, infatti, perdersi dietro stereotipi è quasi inevitabile. Capita a tutti di venir accusati di far vedere solo il bello, dimenticandosi del brutto e persino del cattivo.

È capitato, e sicuramente accadrà di nuovo, anche alle Donne che Emigrano all’Estero. Ogni tanto, ad esempio, qualcuno ci chiama “mantenute” e racconta di mariti dai portafogli infiniti, pronti a piegarsi ad ogni nostro capriccio. Si tratta, abbiamo recentemente scoperto, di ricchissimi uomini con prole al seguito che ci mantengono in uno stile di vita quasi esotico. Parlandone in gruppo, sorprendentemente ma non troppo, abbiamo scoperto situazioni ben diverse. Abbiamo parlato di momenti ben diversi dalla giornata dall’estetista oppure dalla parrucchiera. Si tratta di denti stretti, qualche volta persino di lacrime amare. Oppure di liste della spesa calibrate al centesimo, orari di lavoro spesso massacranti e di tutte quelle cose che i filtri di solito lasciano fuori. Abbiamo scelto di parlarne con voi, di farlo sul serio. Ecco, quindi, “Donne che Emigrano all’Estero Untold“. Buona lettura.

Annamaria da Dubai: “Le donne che Emigrano all’Estero sono un po’ folli.”

Tante volte mi sono sentita dire che è da codardi lasciare il proprio paese e la cosa mi ha sempre fatto male. Il mio primo vero espatrio è stato a Singapore all’età di 28 anni, poi Londra e Nizza con intermezzi lavorativi in Burundi, Libia, Rep. Dem. del Congo e Rep. Centrafricana. Da 4 anni sono a Dubai con marito e figli.

Ho fatto il mio primo viaggio all’estero con mio padre, in Spagna, quando avevo 12 anni. Rimasi stregata dal viaggio e dal paese e decisi che avrei studiato lingue e visto il mondo prima di mettere radici. Ed è stato cosi. Le radici sono sempre rimaste a casa, in Italia, dove sono cresciuta e risiede la mia famiglia, che mi manca sempre quando sono fuori, ma non sono ancora pronta a smettere di girare.

Annamaria-dubai-donne-che-emigrano-all-esteroIl mio stile di vita non è da prendere ad esempio perché, nonostante ci siano cose dell’Italia che non mi piacciono, non ho lasciato la patria per questo. Ciò non vuol dire che sia stato tutto facile. Le difficoltà le ho avute eccome.  All’inizio chiamavo casa in lacrime, come quella volta in Guinea il cui bagno dell’alloggio in un villaggio sperduto era cosi vecchio e sporco che nemmeno la pipì riuscivo a farci, ed ero disperata e sola. O quando credevo mi avessero rubato i soldi (non miei).

Il supporto dei miei genitori è stato prezioso per imparare a cavarmela da sola. Le persone giudicano da foto felici postate ogni tanto, e scatta l’idea che siamo tutte mantenute dalla famiglia o dai mariti. Ognuno ha il diritto di vivere la propria vita come meglio crede. La mia vita da tetris non la racconto spesso perché non mi piace lamentarmi. Ma sappiate che chi si trasferisce all’estero deve faticare per trovare casa, un lavoro, sistemare i figli a scuola e rapportarsi a lingua e cultura diverse, capire come funziona il sistema sanitario, come fa quadrare i conti, rendere validi i documenti e riconosciuti i titoli di studio. E se sei malato tu o i tuoi figli è inutile chiamare casa. Mamma non può correre a portarti il brodo o la parmigiana di melenzane che desideri. Uscire dalla comfort zone è da vigliacchi? No, ma da folli forse un pò si.

Valeria da Adelaide: “Le Donne che Emigrano all’Estero sanno costruirsi una nuova casa, anche se non è facile”

In Australia sono arrivata per caso. Meglio: non proprio per caso, ma comunque non ho mai avuto piani a lungo termine. Sono arrivata nel 2013 con il mio fidanzato, ci siamo mantenuti con la mia borsa di studio del dottorato e poco altro. Lui lavorava in diverse palestre, per i primi due anni, poi io ho avuto un’offerta di lavoro come ricercatrice post doc in università. Abbiamo vissuto in un bilocale senza cucina per tre anni: in questo modo eravamo vicino al centro e potevamo risparmiare sui trasporti. Poi abbiamo ripiegato per una casetta: era buia e senza riscaldamento. Saranno anche solo tre o quattro mesi di freddo, direte voi, ma vi assicuro che dodici gradi in casa non sono il massimo.

valeria-adelaide-donne-che-emigranoNel frattempo ci siamo sposati e il percorso per diventare genitori è stato difficile, lungo e doloroso. La lontananza da casa non aiutava, ma ci ha consentito di coltivare amicizie bellissime che ci hanno coccolato e supportato. Nel 2018 è nato il nostro bambino e abbiamo cambiato casa. Il successivo ostacolo è stato quello appunto di prendere il passaporto australiano, un’avventura che Indiana Jones, spostati. Tra consigli professionali sbagliati, cambi di leggi repentini, stress, lacrime e voglia di tornarsene in Italia e basta, alla fine il “miracolo” è arrivato. L’università mi ha offerto un contratto sufficientemente lungo da farmi da sponsor per la residenza permanente.

A fine 2020 nasce la nostra “COVID baby” e in quel momento ho realizzato di non esser mai stata così felice di vivere ad Adelaide. Si è trattato, probabilmente, di una delle città meno toccate dalla pandemia. Il nostro 2020, poi, si conclude anche con il tanto desiderato passaporto australiano per tutti e quattro. Mio marito decide di stare a casa coi bambini per risparmiare sul nido (in media 130$ al giorno), io lavoro a tempo pieno in università. Nel 2022 decidiamo di tornare in Italia in via definitiva: impacchettiamo 9 anni di vita e torniamo.

Dopo tre mesi di sofferenza per diversi motivi che ho spiegato in un altro post, decidiamo di tornare ad Adelaide. Siamo senza lavoro, senza casa e con due bambini piccoli, ma abbiamo un esercito di amici che ci accoglie a braccia aperte e ci aiuta a rimettere insieme i pezzi della nostra vita. Oggi lavoriamo entrambi a tempo pieno, i bambini vanno al nido, siamo tornati nella nostra casa piena di luce. Non ci concediamo lussi particolari e il costo della vita si è impennato in soli pochi mesi, ma abbiamo tutto quello che desideriamo. Siamo stanchi, dopotutto abbiamo due bambini piccoli che lasciamo al nido alle 8 e riprendiamo alle 5 poi casa, cena, bagnetto, nanna, ma siamo felici così. Per me Adelaide, dopo 10 anni non sempre facili, è casa.

Arianna da Edimburgo: Se vuoi, puoi. Con quello che hai.

Dopo un’estate di dubbi, paure e ripensamenti alternati ad entusiasmo frenetico, scelsi Bristol, in Inghilterra. Partii da sola a 25 anni appena compiuti. Adoro parlare l’inglese e, dopo anni di studio universitario, volevo perfezionarmi. Insomma, mi sentivo un po’ come chi esce dalla scuola alberghiera e manda il curriculum in un ristorante stellato. Io, infatti, volevo imparare dai migliori.

I miei genitori mi hanno appoggiata in questa scelta e si sono messi da parte, controllando da lontano e assicurandosi che fossi informata per lo meno sui servizi di base del Paese che avrei chiamato casa per circa sei mesi. Poi comprai il biglietto e feci la valigia. Il fatidico giorno mia mamma mi accompagnò alla stazione: lì presi il treno che mi avrebbe portata all’aeroporto.

Un piano l’avevo fatto, ovviamente. Avrei tradotto il mio curriculum in inglese e lo avrei consegnato ad ogni locale che cercava personale. Ero sicura che non sarebbe stato difficile trovare lavoro in un bar data la mia esperienza nel settore e il livello di lingua che già avevo. Dopo tre giorni nel nuovo Paese ebbi già due colloqui e dopo otto giorni, un buon lavoro in un caffè.

Per quanto riguarda l’alloggio, prenotai qualche notte in un ostello (non sapevo ancora che in realtà ci avrei trascorso tre settimane). Da lì avrei iniziato a parlare con persone (il famoso “passaparola” è sempre valido), iscrivermi a pagine Facebook dedicate e siti di affitti stanze, cercando senza sosta. Mi ero data un budget e poche pretese: non potevo permettermi di spendere molto.

Dopo tre settimane trovai una stanza in una casa condivisa con un’altra ragazza e la proprietaria. In meno di un mese avevo uno stipendio e una casa in cui tornare la sera. Ero una specie di miracolo per gli altri avventurieri conosciuti in ostello, sapete? Ma sai, se vuoi puoi. Ma soprattutto, se devi, riesci (l’affitto a fine mese lo dovevo pagare e a casa, non ci volevo tornare).

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1 Commento

Samanta - Jena DE 09/06/2023 - 08:08

Le storie delle Donne che Emigrano all’Estero sono importantissime. Parlare di espatrio senza fronzoli e senza filtri (anche senza quelli di Instagram o TikTok) è importantissimo. Ci ricorda che siamo umani, innanzitutto. Ci ricorda, allo stesso modo, che possiamo farcela. Non si tratta di storie di fortuna, di successi inaspettati, di magia bensì di denti stretti, di determinazione e, qualche volta, di necessità nuda e cruda. Bravissime ❤

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