Ciò che le donne expat affidano al vento
Parlare di donne expat vuol dire parlare di donne che affrontano i propri fantasmi, che si confrontano e prendono decisioni entusiasmanti, coraggiose, irrevocabili, dolorose, colme di speranze, traboccanti di sogni e desideri, laceranti, impulsive e ponderate, improvvise e meditate, eroiche e sconsiderate. Di tutto un po’ è presente nell’atto di trasferirsi all’estero, qualsiasi siano i motivi e le condizioni.
Siamo tutte un po’ pazze e un po’ sognatrici, eppure tutte mosse da un impulso irrefrenabile di farci artefici del nostro futuro.
Oggi mi sento malinconica ed ho voglia di andare a toccare una corda delicata che pure riguarda ognuno di noi, se non ora in futuro. È inevitabile, fa parte della vita. Quando ci allontaniamo dalle nostre radici ci sembra di poter conquistare il mondo, ed in effetti lo facciamo, conquistiamo il nostro mondo-altrove, il nostro spazio, e più siamo giovani e meno la distanza ci fa paura. Purtroppo però quando accade quell’evento che porta via una persona a noi cara nella nostra terra di origine, ecco che rimettiamo tutto in discussione.
La morte è di per sé un evento difficile per tutti, ma per chi è lontano quanto lo è di più?
Sapere di una persona cara malata, anziana, sapere che ci stiamo perdendo qualcosa che sfugge all’alito vitale, che lasciamo indietro qualcosa o qualcuno che non ritroveremo, quanto incide questa consapevolezza nella nostra esistenza da expat?
Quando partiamo, il mondo che ci lasciamo alle spalle è quello della nostra infanzia, diamo una sforbiciata al cordone che ci lega alle radici, salutiamo con risolutezza il grembo materno che ci ha cullate, orgogliose delle donne che siamo o ci accingiamo a diventare.
A volte fuggiamo da qualcosa, sentiamo un bisogno forte di farlo per poter far sbocciare la crisalide che è in noi.
Altre volte ci allontaniamo con un peso dentro, le circostanze ci spingono a muoverci senza averlo davvero desiderato. In qualsiasi caso, ogni volta che torniamo indietro, che “rientriamo” nel grembo natale ecco che torniamo figlie, indifferentemente dalla nostra età, ecco che guardiamo il mondo con gli occhi dell’infanzia. Vi è mai capitato di tornare “a casa”, alle vostre origini e di ricordare improvvisamente che qualcosa era cambiato nel frattempo? Lo avevate completamente dimenticato. Eppure lo sapevate, eravate state messe al corrente, ma la distanza gioca brutti scherzi.
La distanza allontana anche la realtà.
Nel momento in cui si affronta un lutto di una persona cara rimasta “a casa”, questo lutto assume contorni labili.
L’evento in sé lo viviamo con la stessa intensità di tutti gli altri, anzi a volte con l’aggiunta di una punta di rimpianto per non esserci state, condito da un senso di colpa perenne che accompagna noi donne nella vita, e noi donne expat ancora di più. Al funerale assaporiamo il gusto amaro della percezione netta di non far più parte di quella comunità, e ciò a dispetto di tutti i nostri sforzi per tener salde le radici nonostante della distanza fisica. Amici e parenti accorrono e si stringono intorno alla famiglia colpita dal lutto, compaiono facce nuove, di gente che nel tempo il nostro nucleo di origine ha acquistato, frequentato, amato, mentre noi eravamo fuori, lontane. Riappaiono vecchie conoscenze che con nostra sorpresa hanno mantenuto il filo con il nostro nucleo a nostra insaputa. I parenti più prossimi si premurano di indicarti i nomi di quel volto invecchiato, mentre dentro di te ribolli di rabbia poiché sai benissimo di chi si tratti, hai seguito le sue vicende attraverso la narrazione del tuo nucleo, pur senza conoscere la persona direttamente. Lo hai fatto per tenerti aggiornata, per non perdere colpi, per far parte al contempo dei due mondi a cui appartieni o credi di appartenere.
A dispetto dei tuoi sforzi, vieni aggiornata come un outsider, un’estranea alla tua stessa tribù.
Ti rendi conto che una vita trascorsa nella medesima città, nel quartiere di sempre, porta i suoi frutti: al funerale di uno di “loro”, il tuo nucleo avrà collezionato una serie di amicizie, quelle vere, non virtuali, di gente che ha incontrato lungo il suo cammino e che li ha accompagnati fino all’ultimo giorno. E tu, donna expat, sopraggiunta di corsa, con ancora la valigia al seguito, gli occhi gonfi mostrati a tutto l’aereo, noti i veri grandi assenti: i tuoi stessi amici. Non che tu non ne abbia, tra le fila delle tue amicizie conti nomi di tutte le origini, lingue, nazionalità. Hai conosciuto persone meravigliose, interessanti, alcune per breve tempo, ma siete ancora in contatto, altre più a lungo. Qualcuna è diventata una cara amica, hai condiviso esperienze profonde con loro. Eppure al funerale del tuo defunto brillano per la loro assenza semplicemente perché…sono lontane. Lontane fisicamente, lontane mentalmente, lontane dal tuo nucleo, dal tuo mondo di origine, lontane e basta.
Quella del tuo lutto sarà una parentesi che tu vivrai intensamente, dolorosamente e che ti riporterai indietro nel tuo Paese di accoglienza (casa?) come un marchio sul tuo biglietto aereo, che resterà da quel momento in avanti. Andrai a piangere in spiagge sconosciute, davanti a mari sconosciuti, affiderai a venti diversi le tue lacrime e costruirai il tuo altarino, il tuo butsudan, in un angolo di un mobile senza radici, senza storia, se non la tua propria breve storia di espatriata.
Una volta “tornata” verso la tua casa-altrove, dovrai fare i conti con il tuo mondo-altrove.
Dentro di te le tue due realtà si osserveranno stupefatte, guardinghe, ognuna chiedendosi chi delle due sia quella vera. La tua vita riprenderà gradualmente, il dolore resterà in un angolo sempre più angusto del tuo animo per lasciare spazio alla vita che ricomincia. E nulla –nulla- nel tuo mondo-altrove ti ricorderà della tua perdita, poiché il tuo altrove è costruito senza radici, senza fondamenta. Queste sono rimaste dove sono nate, per definizione è impossibile spostare le radici; le si può allungare, tagliare e farle ricrescere altrove, ma non saranno mai quelle originarie, da queste nascerà una nuova pianta, che andrà ad innescarsi sui rimasugli dell’antica.
Il tuo nucleo-altrove ti riaccoglierà come se non lo avessi mai lasciato, nessuno si accorgerà dei mutamenti avvenuti dentro di te. Si chiuderà un cerchio attorno a te che ti allontanerà di nuovo, e ancora, sempre di più dal vecchio mondo, che guarderai con rinnovata nostalgia, e rinnovato senso di colpa.
Guarderai il tuo butsudan di tanto in tanto per sentire quella stretta al cuore.
Sebbene tutto dentro di te sia consapevole della tua perdita, con il tempo e la lontananza quella corda-dolore si assottiglierà e senza accorgertene ti sorprenderai a voltarti indietro nuovamente con il tuo sguardo di bambina e ti sembrerà per un istante che nulla sia cambiato, che tutti siano ancora lì ad aspettarti, perché tu tornerai presto, prestissimo, anzi …quasi non te ne sarai mai andata.
Il titolo dell’articolo parafrasa quello del romanzo Ciò che affidiamo al vento, di Laura Imai Messina (Piemme 2020).
3 Commenti
Quanta verità hai descritto! Pensa che avevo preparato un articolo simile, in cui parlavo della fitta al cuore nel momento in cui si riceverà quella maledetta telefonata.
Questo pezzo è veramente molto commovente. Grazie ❣️
Ne parlavo anche io nel mio articolo “cara zia”… A casa di mia nonna non ci sono più andata, voglio immaginare che ci sia ancora confusione e odore di lasagne.
Bellissimo articolo che arriva dritto al cuore.