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Ma dove vogliamo andare, alla fine?

di Katia
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Ma dove vogliamo andare, alla fine?

Divagazioni notturne e visionarie sul futuro del viaggio

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In realtà, io volevo ripartire.

Ero terrorizzata al pensiero di mettere radici, all’idea di trovarmi incastrata da qualche parte. Ho accettato di rimanere solo perchè, con raziocinante distacco, ho compreso che il luogo è in noi e non all’esterno. Mi è costato fatica però, e continua a costarmela.

Forse l’espatrio rappresenta, nel suo piccolo, un tentativo di espansione oltre il conosciuto, soprattutto se si cambia continente e radicalmente cultura. Che la vera aspirazione sia quella di andare molto più lontano?

Ma dove vogliamo andare, alla fine?

Penso che ci sia una spinta ad andare oltre: oltre il paese dove siamo nati, oltre le dinamiche familiari, oltre le mode, oltre il tempo, oltre il conosciuto. Oltre, nello spazio profondo. Se questa  spinta esiste viene da una zona del nostro essere ancora da svelare, temuta e, per questo, ricacciata nel buio. Chiusa  a chiave in una segreta. La chiave stessa, buttata in pozzo irraggiungibile. Quando è stato: 500 anni fa? 200 anni fa?  Andare, per ipotesi,  in Cina era un viaggio ai confini della realtà, carico di tensioni e di imprevisti; un muoversi pericoloso, dall’esito incerto e della durata di anni. Oggi, ci arriviamo in una giornata da qualsiasi località della Terra. Spesso, è un mordi e fuggi, un business travel di 36 ore su territorio cinese – o anche meno – e poi via di nuovo.

Chi è in grado di pensare alla propria vita come qualcosa di tenacemente legato ad un singolo spazio territoriale?

Ricordo che, molti anni fa, conobbi una signora anziana che mi disse, indicandomi un poggio poco lontano dalla sua casa: “eh, io non mi sono mai mossa da qui, sa? Lo vede quel poggio laggiù? Non sono mai andata oltre quella collina!”. I miei nonni, sul finire degli anni 30’, andarono in viaggio di nozze a Livorno, da Grosseto. Negli anni 60′ i miei genitori  si avventurarono fino a  Venezia . Oggi, andiamo in Polinesia. Compagnie private come la Virgin Galactic di Richard Branson si stanno attrezzando per farci volare oltre l’atmosfera terrestre. Voli spaziali  di piacere per  osservare il nostro mondo così come l’ha visto  Samanta Cristoforetti.  

A me sembra che sia in corso una forma di accelerazione che scorre su un doppio binario: decrescita dello spazio legato al salto culturale tra una generazione e l’altra e crescita delle distanze percorse, come se ci fosse un invisibile relazione tra lo scorrere del tempo e l’intensificarsi della voglia di spingersi sempre più lontano.

Presto, il viaggio potrebbe diventare una cosa banale e forse anche un poco noiosa; un po’ come uscire la sera per portare a passeggio il proprio cane giù in strada,  nello stello isolato in cui abitiamo.

Prima ancora di viaggiare con il corpo ho viaggiato con la mente.

Sapete il primo libro che  ha aperto nuovi orizzonti quale è stato? “Uno”, di Richard Bach. Rileggerlo oggi mi fa sorridere eppure, la me quattordicenne di allora, ha esultato nello scoprire che un autore azzardava ipotizzare una multidimensionalità spazio-temporale. Personaggi che entravano ed uscivano dalla scena in epoche diverse, in spoglie diverse, un po’ come, anni più tardi, si è visto nel film – e libro di Mitchell – Cloud Atlas dei fratelli Wachowski (ora non più fratelli ma fratello e sorella, per la cronaca. Sempre per la cronaca sono anche gli ideatori di Matrix).

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Sono una fan di Guerre Stellari. La Galassia con il suo senato mi pare più credibile rispetto a molti parlamenti terrestri, per esempio. Gli Altri miei due film cult: Matrix e Blade Runner. Entrambi rappresentano scenari del tutto plausibili, a mio avviso. Oltre ai film, i libri. Quelli scoperti di recente di Margareth Atwood e quelli di Michel Houellebecq. Di quest’ultimo, “Le particelle elementari” hanno dato una virata decisiva al mio modo di vedere le cose e di decodificarle. E’ lui, il mostro francese della penna, ad avermi introdotto alla fisisca quantistica mentre vivevo a Berlino. La parte intangibile della realtà, quella virtuale che si crea ad Hollywood o quella virtuale che crea la nostra mente attraverso la lettura di autori che si spingono oltre, può porre dei confini piuttosto labili rispetto ad un concetto di  realtà assoluta.

Quello che non si vede potrebbe essere molto più reale del visibile.

Dopo il rientro in Italia, ad un certo punto, ho sentito un pugno allo stomaco e la voglia di ripartire. “Che ci faccio qui?”, mi sono detta. Le impressioni mentali che ti accompagnano dopo, nella nuova vita, non sono facili da cancellare. Quando fai la spesa, ti si para davanti il volto di Janet e la senti parlare del prodotto che stai guardando sullo scaffale. Poco più in là intravedi Paul che spinge un carrello e ti sorride. Mentre sei a casa che leggi un libro, senti il piovigginare sui vetri e di nuovo sei riportata  nella foresta durante la stagione delle piogge, chiedendoti dove sei veramente. Tutto questo indurrebbe a  pensare che noi, ad un qualche livello, siamo olografie di noi stessi  manovrate da ciò che ci portiamo dentro, oltre che da forze  più potenti e meno definibili.

Ed è per questo motivo che, alla fine, non sono più ripartita.

Se – e solo se – è vero quanto detto finora, serve spostarsi fisicamente per diventare esploratori? O meglio, dopo che avremmo trascorso anni ad esplorare questo mondo, potremmo dirci soddisfatti? Potremmo ritenere che qui si celano tutte le fonti di conoscenza?

Se non avessi vissuto all’estero per un decennio e non avessi superato i 50 anni di età, con l’immensa crisi esistenziale che questo traguardo può portare seco, non avrei mai pubblicato una riga su certi argomenti ritenuti dai più e ancora oggi, campati un po’ in aria.  Sto vivendo  un momento magico, in cui tutto appare sfumato e tremolante. La magia è rappresentata dal crollo totale di proiezioni, dal frantumarsi inesorabile di fantastichierie e speranze. Oggi, davanti a me e per la prima volta, un reale più terrifico di qualsiasi fantasia nera e, per questo, un territorio tutto da scoprire. Mi sembra di potermi permettere stramberie che, in passato, non avrei mai potuto permettermi per ragioni di credibilità (ma anche perchè non sapevo di poterle partorire). Non mi sento neppure più tanto posseduta dalla smania di rifare le valigie. Ma non è detto, in futuro. Però, come dicevo all’inizio e come ribadisco ora, alla fine del post, tutto questo – momento magico compreso – richiede un obolo salato da pagare.

Tuttavia, quello che non c’è ancora, che non si vede ancora e che non si conosce ancora continua ad affascinarmi, forse come e più di prima.

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2 Commenti

Solare 24/07/2019 - 07:07

Che bello il tuo post. Un po’ complicato a tratti…cioè proprio non ci ho capito molto ma l’ho trovato molto refreshing come si dice in inglese per definire qualcosa di “ rinfrescante” in senso mentale. Bella l’immagine di noi come ologrammi…mi piace proprio! Un po’ più elegante e interessante che dire semplicemente : “sono confusissima “. La userò anche io d’ora in poi! Ciao

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Katia 20/03/2020 - 23:27

Ciao Solare,
vedo ora il tuo post a distanza di quasi un anno.
Ti ringrazio per il “refreshing”.

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