Due generazioni, due espatri.
Come sarebbe, oggi, la vita da espatriata senza la tecnologia?
Senza i moderni aeroplani che ci riportano in poche ore ai paesi di origine?
Senza il computer ed internet che permettono di parlare e vedere la famiglia lontana, che eliminano le distanze e ti permettono di farti sentire vicina ad un genitore o un figlio che soffre di malinconia?
Assuefatti da queste comodità, è difficile immaginare cosa vorrebbe dire rinunciare a ciò che rende la nostra condizione di expat più semplice.
Per comprendere quanto sia più facile e agevole emigrare ai giorni nostri, vi racconto la storia di mia madre, delle sue avventure vissute da ragazza quando partì, a soli 25 anni, alla volta dell’Africa Centrale per seguire mio padre, giovane geometra assunto da una grossa azienda belga impegnata nella costruzione della rete ferroviaria nell’allora Congo Belga.
Mia madre gettò alle spalle la sua vita tranquilla vissuta a Udine, circondata dall’amore della sua famiglia e dalle sue amiche d’infanzia. Abbandonò quella vita semplice e regolare che una ragazza della sua generazione abitualmente conduceva e si tuffò nell’ignoto senza esitazione.
Una storia che ha il sapore romantico dei libri del passato in cui la protagonista è un’eroina fragile e forte al tempo stesso.
Questo racconto vuole elogiare il coraggio delle donne ed essere la dichiarazione di amore alla mamma da parte di una figlia che ammira il suo spirito e la sua determinazione.
Siamo nel 1954, Giovanna è a passeggio con le amiche nel centro di Udine. Tra la folla vede un giovane che le sorride e la guarda.
Una gomitata delle amiche, un “ciao” timido di risposta a quello del ragazzo: inizia così la loro storia d’amore durata una vita intera. Si sposano dopo tre mesi da quell’incontro per poter partire insieme alla volta dell’Africa nera.
Il viaggio per raggiungere la destinazione assegnata a mio padre in Congo dura vari giorni: un lungo tragitto fra auto, treni e aerei che rende sfiancante il cammino verso la nuova esistenza di coppia.
Giovanna inizia euforica la sua esperienza fatta di savana, caldo umido, piogge torrenziali, animali mai visti prima, donne e bambini che si accalcano davanti all’auto o al treno per guardare la giovane bianca con il suo bel vestitino e il cappellino di paglia a fiori.
Ogni cosa è strabiliante ai suoi occhi, essendo talmente differente da quello che fino ad ora ha visto in Italia.
La prima grossa difficoltà che incontra è la lingua, un ostacolo che probabilmente molte di noi hanno affrontato.
Mia madre conosce un poco di francese studiato a scuola; così, deve affrettarsi ad impararlo meglio e a migliorarlo per inserirsi nella numerosa comunità belga presente in loco.
Nulla conosce invece di Kiswahili, la lingua che le avrebbe permesso di interagire con la gente locale.
Deve inoltre imparare a cucinare pietanze nuove utilizzando alimenti a lei sconosciuti.
I rifornimenti delle derrate alimentari giungono dall’Europa a distanza di mesi e, nel frattempo, gli scaffali dell’emporio si svuotano in poche settimane.
La prima sistemazione assegnata loro dalla Società Belga è una villetta con un magnifico giardino. Vi crescono rigogliosi alberi di mango, papaya e banane.
Alle comodità della vita di città e di casa, si alternano periodi trascorsi in “camboose”, un vagone attrezzato tipo roulotte che viene depositato su un binario morto nelle stazioncine prossime ai cantieri ferroviari.
E’ l’unico modo per la giovane sposa di stare accanto al marito durante i mesi di lavoro trascorsi nella savana ad effettuare i rilievi per la linea ferroviaria.
La notte è stupenda, mi racconta, perché nessuna luce si frappone tra la terra e la volta celeste.
Si odono i ruggiti dei felini, padroni indiscussi delle vaste pianure africane. Un’emozione indescrivibile.
Sono periodi di solitudine, di giorni trascorsi nel silenzio e in compagnia di un libro, nell’attesa del rientro del marito dal lavoro.
Al fianco di questa giovane donna, mio padre ha voluto che ci fosse il “boy”, un ragazzo locale assunto per assistere mia madre in tutti quei frangenti che richiedono la presenza di una persona del luogo.
Il boy si occupa della sua sicurezza, di andare nei villaggi ad acquistare frutta, verdura, qualche uova e delle galline.
Mia madre decide di seguire mio padre di vita in camboose anche dopo aver scoperto di aspettare un bambino.
Nonostante i tentativi del marito di farla ragionare e di convincerla a rimanere al sicuro nella loro comoda casetta in città, lei non demorde.
Si fa sistemare una sdraio ben legata al pavimento della carrozza del treno.
Le serve per percorrere in maniera confortevole i lunghi tragitti e per evitare di cadere ad ogni forte scossone della carrozza.
L’assistenza sanitaria a quei tempi risulta essere buona solo nella capitale o nei grandi centri abitati dove medici occidentali lavorano negli ospedali.
Per chi vive, invece, nei piccoli centri, il medico generico si occupa di ogni aspetto della salute dei pazienti: dalla medicina generale alla chirurgia, dalla ginecologia fino alla dentistica…insomma di tutto un poco.
La nascita della prima figlia vale un lungo viaggio attraverso la savana per raggiungere il primo grosso centro abitato; mia madre può dare alla luce mia sorella in un comodo letto d’ospedale con le cure di medici preparati e attenti.
Le comunicazioni tra Congo e Italia sono affidate a lettere via aerea che arrivano ai genitori, desiderosi di notizie, con settimane di ritardo.
Solamente le notizie di fondamentale importanza, come la nascita di una nipote, vengono inviate tramite il prezioso telegrafo.
Anche i contatti fra mio padre in trasferta attraverso il Paese e mia madre, rimasta a casa con la bimba, sono difficoltosi.
Missive spedite tramite i rari treni in viaggio passano di mano in mano tra i capistazione, oppure utilizzando la telefonia tra stazione e stazione dove i messaggi giungono a destinazione incomprensibili o totalmente differenti dall’originale a causa del passaparola.
Messaggi come: “Tesoro tutto bene, rientro a fine mese” si trasformano in: “ Il pomodoro non viene, devi fare le spese”.
Metodi di comunicazione ben diversi dai nostri comodi Skype o WhatsApp, che raggiungono i nostri cari in un battito di ciglia.
L’arrivo della prima figlia costringe mia mamma a rimanere a casa.
La comunità di donne europee presenti nella cittadina è abbastanza numerosa e molto supportiva.
Tutte aiutano tutte e non mancano i momenti di socializzazione, come le cene per le nuove arrivate o per passare in compagnia i periodi di attesa prima del ritorno dei mariti dalle lunghe trasferte.
In uno di questi frangenti, mia madre viene invitata a pranzo da una signora belga che le magnifica le proprie doti culinarie, soprattutto nella preparazione della pasta.
“Chi meglio dell’Italiana può apprezzare tali delicatezze?” pensa la signora Belga.
Il piatto principale che offre a mia madre e’ “budino di fidelini”, un composto colloso e immangiabile che, per dovere di ospitalità, Giovanna deve ingoiare a gran fatica.
Ma sette anni di vita felice trascorsa in quello stupendo Paese pieno di fascino sono in procinto di terminare per tragici eventi.
Il desiderio di Indipendenza dalla colonizzazione belga serpeggia fra i Congolesi; nella comunità di espatriati si crea un senso di incertezza per l’incognito futuro.
Episodi di intolleranza, disordini e violenze nei confronti degli occidentali cominciano a manifestarsi sempre più di frequente.
Le autorità belghe sono spinte a stabilire un’ evacuazione di donne e bambini con ponti aerei.
Il Paese è ormai fuori controllo e si assiste ad una escalation di aggressioni, saccheggi e uccisioni.
Tutti sono contro tutti: chi vuole riprendere il potere perduto, chi conquistarlo.
In questa situazione di emergenza, si consuma il dramma anche per la comunità italiana.
Il Console viene ucciso da una raffica di mitra mentre cerca di raggiungere e trarre in salvo una famiglia di connazionali rimasta isolata in una fattoria periferica rispetto al centro abitato.
Mia madre con le due bimbe, mie sorelle nate in Africa, insieme ad altre donne e bambini, inizia il suo periglioso viaggio verso la sicura Europa.
Attraverso un pericoloso tragitto in jeep lungo piste nel mezzo della savana, alla mercè di ribelli armati che da un momento all’altro avrebbero potuto sparare contro quell’auto indifesa, mio padre porta la sua famiglia in salvo all’aeroporto civile presidiato da militari.
Con le poche cose che è riuscita a stipare in valigia, parte con la morte nel cuore.
Lascia suo marito in un luogo non più sicuro, lascia la sua casa, i suoi amici, tutta la sua vita fino ad allora costruita.
Le donne e i bambini vengono trasportati da un aeroporto all’altro, fino a giungere in un campo di raccolta presso una base militare del Paese.
Passano molti giorni di disagi e difficoltà durante i quali, sia mio padre sia i familiari in Italia, non sapranno nulla di dove di Giovanna e le bambine sono finite.
Finalmente, arriva il loro turno e vengono imbarcate su un volo diretto a Brusselles.
Atterrano con solo i vestiti che indossano, avendo dovuto lasciare ogni bagaglio in Africa.
Era stato promesso loro che le valigie sarebbero partite in un secondo momento.
In quella valigia abbandonata sul piazzale dell’aeroporto, e mai giunta a destinazione, sono rimasti gli oggetti a lei più cari. Non li ha mai più riavuti indietro.
Le restano, oggi, solo i ricordi di quei sette anni avventurosi trascorsi in Congo, assieme a qualche sbiadita fotografia che mio padre è riuscito a salvare e a riportare in Italia al suo rientro.
Mia madre non ha più rivisto l’Africa né i luoghi che la videro sposa felice e giovane madre.
E’ solita raccontare episodi di quella vita con una luce negli occhi che esprime tutto l’entusiasmo con il quale ha vissuto la sua esperienza di espatriata.
Non ha perso lo spirito avventuroso nemmeno oggi che ha 87 anni.
Da sola, prende un aereo per raggiungermi in Qatar, dove vivo oggi.
In questo modo, ancora una volta, condivide le migrazioni familiari attraverso il mio espatrio pieno di stimoli.
Grazie ai suoi racconti, faccio esperienza della mia condizione di espatriata con curiosità, entusiasmo e senso di arricchimento.
Grazie Mamma, ti voglio bene.
Chi sono
8 Commenti
Un bel racconto, è bello poter pensare di cambiare così …. anche se aiuterà dimenticare i lati duri….
Tua mamma è una grande donna. Ha dimostrato coraggio e una forte capacità ad adattarsi. La sua storia è fonte d’ispirazione e di incoraggiamento in quei momenti dove quando sei lontana da casa ti senti un po’ giù. Mi piacerebbe tanto ascoltarla mentre racconta la sua storia. Anna
Bellissimo racconto. Ho condiviso l’entusiasmo di tua madre molti anni dopo, quando nel ’77 sono partita per il Mozambico che aveva da poco conquistato l’indipendenza e si preparava a costruire una società completamente diversa con entusiasmo e dedizione, pur con molte difficoltà. Ho condiviso per undici anni quell’entusiasmo, ho imparato molto di quel mondo e soprattutto di me stessa. Tutto questo fa ancora parte dei miei ricordi più belli. Grazie per la tua testimonianza.
Complimenti per la forza e il coraggio di tua madre.
Anche noi un anno fa siamo stati in congo. E come tua madre abbiamo instaurato delle meravigliose amicizie con le altre famiglie di espatriati. È stata un’esperienza che ripeterei ad occhi chiusi.
Cara Laura, un bel racconto commovente e dolce. Bellissima l’idea di questo parallelismo che avete in comune coronata dal pensiero di un racconto come regalo per il suo compleanno. Viva le donne!
Che bella storia! Forse ancora sensibile dagli ormoni post parto che qualche lacrima mi è scesa!
Tua mamma è una forza in tutti i sensi.
Uno dei più racconti che abbia letto sull’espatrio. Una forza della natura tua madre e chissà quante altre donne delle precedenti generazioni sarebbero state così avventurose se solo ne avessero avuto la possibilità, noi in confronto siamo expat di lusso.
Uno dei racconti più belli che abbia letto sull’espatrio. Una forza della natura tua madre e chissà quante altre donne delle precedenti generazioni sarebbero state così avventurose se solo ne avessero avuto la possibilità, noi in confronto siamo expat di lusso.