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Elogio della scatoletta di tonno

di Cristina Basile
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La gioia del viaggio in solitaria ovvero: elogio della scatoletta di tonno

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Capelli al vento, belle speranze, pantaloni mimetici e scarpe «a fagiolo» (come chiamo io quelle con la punta arrotondata, brutte ma comodissime): questa sono io prima della partenza.

A casa restano invece i trucchi e le credenze abituali, mentre la valigia viene riempita di quelle cose che altrimenti sonnecchiano nel fondo dell’armadio: la camicetta bianca con i motivi acetati, l’anello appariscente, la pinza col fiore di tiarè che, messa di lato, mi fa sentire esotica.

Sì, in viaggio sono più vanitosa, pur rivendicando il sacrosanto diritto alla bruttezza, a quei segni dovuti alla stanchezza che l’esplorazione lascerà sicuramente su di me.

La gioia del viaggio in solitaria, per me, comincia sul treno.

Dico treno perché l’aereo lo riservo ai viaggi in compagnia: pochi, infatti, sopportano bene quanto me il lento viaggiare, la quiete della natura che sfila dal finestrino, il borbottare di questo bestione di ferro che si mette in marcia.

Lettura consigliata a questo proposito, per difendervi dagli stressati che in autostrada vi salutano col clacson: ‘Elogio della lentezza’ di Carl Honoré. Un libro che ho trovato leggero e incoraggiante, soprattutto se i vostri propositi non vanno nel senso del consumismo sia materiale che spirituale.

La molla per il lancio, quando ero studentessa, me la forniva l’inverno con la sua routine scolastica.

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Dalla finestra, l’idea di un viaggio era più attraente di una creatura con il corpo di Brad Pitt e il viso di Keanu Reeves.

Sui banchi pianificavo la meta, esprimevo desideri che lanciavo in aria, nella speranza che una qualche legge d’attrazione mi facesse materializzare la Polinesia davanti, al posto del vocabolario di greco.

Avevo la necessità profonda che tutto, ma proprio tutto, mi fosse sconosciuto e mi risultasse persino un po’ strambo.

Volevo altre fisionomie da vedere, una lingua straniera da ascoltare, una missione non abituale da compiere e che mi spingesse fuori dalla zona di comfort.

Per tutte queste ragioni i primi viaggi da sola sono stati campi di volontariato; quelli che da piccola si chiamavano colonie (nome che, sulle prime, mi faceva venire in mente il profumo con cui mia nonna infestava casa prima di andare al cinema, poi il luogo dove i miei genitori ero convinta mi volessero abbandonare per sempre. In entrambi i casi metteva i brividi).

All’epoca, non potevo immaginare che più tardi, quelle colonie tanto temute, me le sarei andate a cercare da sola, spulciandone avidamente i programmi sul sito della Legambiente.

Ho fatto in tutto due campi, della durata di tre settimane ciascuno.

Il primo in Repubblica Ceca, in un piccolo villaggio dal nome complicatissimo, dove ho tolto erbacce e organizzato un festival per bambini. Di questo viaggio ricordo il liquore a base di miele chiamato Medovina; il contadino Pavel con cui abbiamo fatto discorsi serissimi, usando solo le mani; il bastardino che lo seguiva ovunque e quando, tuffandomi dopo il lavoro in un enorme lago artificiale, sono caduta sul mio collega spagnolo aprendogli un labbro.

Normalmente il numero massimo di volontari è dieci: due dello stesso paese, un uomo e una donna.

Il secondo campo, meno bucolico del primo, si è svolto a Parigi… e da questo non sono tornata.

I requisiti per partecipare ad un campo di volontariato non sono molti: bisogna solo essere sicuri di saper collaborare, essere curiosi e un tantino avventurosi.

Essendo stata una grande costruttrice di capanne sotto i tavoli dai 3 ai 6 anni, ciò che ho preferito di queste esperienze è stato il pernottare in tende o in sacchi a pelo, in case equipaggiate dello stretto indispensabile.

Altro ingrediente fondamentale del mio viaggiare da sola è camminare.

Seconda lettura per difendervi da chi pensava di trovare in voi il velocista pluripremiato Usain Bolt è ‘Il mondo a piedi’ di David Le Breton.

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In questo libro l’autore parla della effimera quanto profonda importanza di quest’atto che ci sa mettere in relazione con il mondo, meglio di una guida cartacea, purché si sia disposti a sconnetterci da ciò che nel quotidiano ci affligge, per entrare in uno stato meditativo, molto prezioso per l’anima.

Camminando, tutto scorre al ritmo del cuore; si hanno una tonnellata di buone idee, pensieri che, a contatto con l’aria aperta, sono più freschi e quindi più giusti.

Altri viaggi che cerco di fare da sola, sono quelli verso i saloni del libro.

Da illustratrice, cerco di partecipare a quanti più saloni posso, gettando le mie esche nella speranza che qualche grosso pesce-editore abbocchi.

Primo fra tutti è quello di Bologna, dove consiglio a tutti i miei colleghi disegnatori di andare almeno una volta.

Qui, immergendomi nella piscina di libri fino a che i polpastrelli non sono ben cotti, preferisco andare da sola: ho seguito per anni mio padre nei negozi di canne da pesca e so cosa vuol dire risparmiare un innocente dalla noia mortale.

Altri piccoli lussi impagabili del viaggiare da soli sono la caduta nell’oblio dell’orologio, il frugale pranzo alle 4 di pomeriggio con una scatoletta di tonno senza dare spiegazioni a nessuno e la pausa romantica di 40 minuti davanti ad un bel panorama, menzionato su nessuna guida.

Per concludere, il viaggio da soli è un diritto a cui consiglio a tutti di appellarsi; una medicina senza effetti collaterali, da trincare una o più volte l’anno con un bel «cin!».

Una volta tornati, vi assicuro che si saranno abbassati in voi i livelli di misantropia e che saranno aumentate, invece, la chiarezza di spirito e la creatività, quella che si era a lungo cercato di risollevare pensando, calcolando, progettando o comprando quei simpatici libri per colorare i mandala che vanno tanto di moda.

Se avete paura di ritrovarvi soli con voi stessi (tadan!), potete anche sperimentare quest’esperienza in miniatura, passando una giornata da soli senza pianificare, lasciandovi portare dalle intuizioni dei vostri piedi in quei vicoli, musei o parchi in cui finora nessuno ha voluto accompagnarvi.

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2 Commenti

Solare 02/06/2018 - 04:50

Sono partita da sola per un giro in sud est asiatico ben 13 anni fa. Dovevo restare per venti giorni…sono diventati sei mesi e al ritorno mi sono trasferita prima a Londra e poi in Australia dove vivo adesso con il mio compagno conosciuto proprio in quel viaggio. Sono tornata con due convinzioni: che il mondo sarebbe un posto migliore se le persone che possono farlo viaggiassero di più in solitaria, a cominciare dalle mie amiche single che si struggono per uomini maleducati invece di perdersi nel mondo e godere del bello e buono che c’è; e la seconda convinzione è stata che per me viaggiare in solitaria è un’esigenza fondamentale a cui non rinuncio neanche adesso che non sono più single e infatti sto per partire da sola per Israele. Un paese che voglio visitare da tanto e che sono certa risveglierà in me tante emozioni meravigliose che solo nel viaggio in solitaria si possono provare. L’unico lato negativo che ho trovato del viaggiare da sola è stato il rammarico per non averlo fatto prima! Cioè lo avevo sempre fatto fin da ragazzina ma mai per cosi tanto e cosi lontano e invece è stato bellissimo!

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Cristina Basile 02/06/2018 - 12:44

Ciao Solare di nome e di fatto! Sono contenta che anche tu, come me, abbia avuto delle impressioni positive sul viaggiare solitario. Rispetto alla tua parentesi sul rammarico, credo che nel momento in cui sai trarre da un evento negativo il suo messaggio, puoi considerare quell’evento benedetto! Un caro abbraccio

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