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Emigrata 100% made in Italy

di Federica Byron Bay
immigrata-italiana

Non sono mai stata troppo attaccata all’Italia e alle sue abitudini. Non sono mai stata una di quelle persone che la prima cosa che fa appena arrivata in Italia è sospirare di sollievo davanti alla vista di un caffè “fatto all’italiana”. All’estero non ricerco per forza la compagnia di italiani per sentirmi più a casa e non credo che la nostra cucina sia la più buona del mondo. Adoro scoprire nuove culture e immergermi negli usi e costumi locali e nel mio cuore ho sempre sentito fermamente di essere una “cittadina del mondo” aperta al nuovo e svincolata dalla mia cultura d’origine tanto quanto basta per accettare ed essere accettata da ogni gruppo culturale senza problemi.

Ora che sono però più di quattro anni che vivo in Australia, la convinzione di meritarmi l’etichetta della “cittadina del mondo” che mi ero orgogliosamente auto-cucita addosso, comincia a vacillare. Inizio per la prima volta invece, a sentire un inaspettato marchio “100% Made In Italy” bruciare sulla pelle.

emigrata-100-italianaPiù mi immergo nella cultura locale, infatti, più mi compiaccio di essere riuscita a capire vari aspetti della burocrazia australiana, più mi crogiolo per le mie eggs on toast per colazione e più la strisciante sensazione che in fondo però io e “loro” siamo diversi si fa strada. A niente è valso l’ingurgitare barattoli su barattoli di Vegemite (*) la mia diversità si palesa comunque nei più piccoli particolari. Sono dettagli…piccoli, piccoli come ad esempio vedere le espressioni atterrite quando spiego che in Italia è comune mangiare pasta ogni giorno, o constatare che la pronuncia e lo spelling del mio
italianissimo nome (Federica) possa diventare degna materia di dibattito e scommesse tra colleghi. Mi è capitato infatti di ritrovarmi a fare da giudice imparziale per decidere chi lo riesca a pronunciare o addirittura a scrivere correttamente regalando così al vincitore attimi di orgoglio infinito per sapersi destreggiare con un nome così esotico. Ho poi ricevuto domande spiazzanti che mi hanno fatto capire come non esista solo il bianco e il nero ma ci siano tante sfumature nel mezzo…mi è stato infatti chiesto perché abbia la pelle così scura…e pensare che al mare, in Italia ho sempre perso miseramente nelle gare-abbronzatura estive! Questi piccoli dettagli mi fanno capire quanto tante cose da me considerate normali per loro siano un indicatore della mia “italianità’” tanto quanto il mio accento. Si, mi sento diversa. Ma fortunatamente accettata.

Emigrare è spiazzante, difficile, destabilizzante perché’ significa non poter far più riferimento alle norme culturali del paese in cui siamo cresciuti e doverne imparare di nuove senza pregiudizi. A volte mi sono sentita persa, non sapevo se ce l’avrei fatta ma sono stata aiutata da tutti quegli australiani che ho incontrato, intelligenti abbastanza da capire che interessarsi sinceramente del mio background culturale fosse per loro una bellissima opportunità per arricchirsi di conoscenze e punti di vista diversi dai propri, facendomi sentire cosi’ meno estranea.

Sono consapevole del fatto che le differenze tra me e “loro” si noteranno sempre perché’ sono cresciuta in una cultura diversa ma sono anche grata del fatto che gli australiani che ho incontrato fino ad oggi mi abbiano sempre fatto sentire apprezzata e rispettata. Da emigrata mi sento di dire ora come non mai che l’integrazione avviene solo in presenza di tre ingredienti di fondamentale importanza: il reciproco rispetto la curiosita’ verso l’altro e l’apertura mentale. E questo vale sempre, qualunque sia il colore della pelle, il paese di origine o quello di destinazione ha veramente poca importanza!

(*) (una crema salatissima a base di lievito di birra che generalmente suscita il disgusto in chi non è australiano)

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