Qualche mese fa stavo facendo un giro sulla mia bacheca di Facebook e tra le notizie condivise dai miei contatti mi è capitato di leggere della battaglia legale che due ragazze quasi mie coetanee stavano affrontando.
Le analogie tra di noi tantissime: italiane, espatriate qui a Barcellona e sposate in Catalunya come me e Sara.
La loro storia mi ha colpito e ho perciò deciso di contattarle per intervistarle e per potervi raccontare la lotta che stanno conducendo attraverso le loro stesse parole: ho il piacere di presentarvi Marta Loi e Daniela Conte, due donne expat, cagliaritana l’una e napoletana l’altra, che, diventate mamme, si sono trovate a doversi scontrate con il vuoto legislativo che circonda i diritti civili in Italia e che, con coraggio, hanno combattuto per il loro piccolo Ruben.
- Cosa vi ha condotto a Barcellona e come è iniziata la vostra storia?
Marta: “Principalmente ci sono state due motivazioni. Cercavo lavoro e in Italia non c’erano molte possibilità, quindi ho deciso di provare qui. E d’altro canto sentivo la necessità di cambiare aria e di vivere in una città con più stimoli.”
Daniela: “Avevo voglia di “cambiare aria” e continuare la mia formazione artistica. Sono partita a 30 anni, un biglietto di sola andata… E in valigia la macchinetta del caffè e la bandiera del Napoli!”
Marta: “Ci siamo conosciute quasi 3 anni fa, durante un evento che io organizzavo. Lei ha partecipato con un numero di clown bellissimo, mi ricordo che ho riso tantissimo. Quando l’ho vista ho subito pensato che fosse molto bella, ma non era il momento giusto per dirle niente. Eravamo in pieno evento e stavamo facendo ognuna il proprio lavoro. Una settimana dopo ho convinto due amici per andare a vedere un altro suo spettacolo e il giorno dopo le ho chiesto di uscire. Lei ha accettato e ci siamo viste quella stessa sera. Abbiamo parlato sino a tardi e ci siamo salutate, lei partiva per Napoli per un mese. Ci siamo riviste al suo ritorno e piano piano ci siamo innamorate.”
- E poi è arrivato il desiderio di allargare la vostra famiglia…
Marta: “Siamo andate a convivere dopo qualche mese di relazione stabile e poco a poco abbiamo iniziato a parlare della possibilità di avere un bimbo. Abbiamo valutato vari aspetti, ma soprattutto avevamo e abbiamo molta fiducia nella nostra unione. Ci appoggiamo e rispettiamo in tutto e questo ci è sembrato una buona base per allargare la famiglia.
In Spagna ci sono stati dei tagli nel settore della sanità pubblica ma comunque l’inseminazione artificiale è molto frequente, sia per coppie etero, che per coppie di donne, che per donne single. Lo stato copre 4 tentativi gratuiti per donne al di sotto dei 40 anni.
Dopo alcune visite ginecologiche e una piccola stimolazione ormonale, il 5 novembre 2014 abbiamo fatto il primo tentativo e Daniela è rimasta subito incinta.”
- Ruben, alla sua nascita, ha ottenuto entrambi i vostri cognomi, secondo la legislazione spagnola, ed è stato per alcuni mesi apolide. Cosa è accaduto e che tipo di difficoltà avete dovuto affrontare?
Marta: “La Spagna ha registrato la sua nascita ma non poteva dargli un documento di identità, perché essendo figlio di una donna italiana, è italiano a prescindere dal luogo di nascita. Quindi abbiamo richiesto la trascrizione dell’atto di nascita in Italia e sono iniziati i problemi. Sia per il doppio cognome ma soprattutto perché risultava figlio di due donne su tutti i moduli spagnoli che abbiamo allegato alla richiesta.
Inizialmente questa trascrizione sembrava impossibile, il consolato ci ha spiegato che altre coppie di donne nella stessa situazione, avevano messo tutto nelle mani di avvocati e dopo mesi di attesa avevano ottenuto la trascrizione e il documento di identità che ne consegue.
Non potevamo nemmeno pensare di rimanere bloccate in Spagna per chissà quanto tempo. Dopo un mese di lotte e denuncia della situazione, il sindaco di Napoli ha deciso di trascrivere l’atto di nascita rispettando quello spagnolo. Quindi ha riconosciuto legalmente anche me come madre di Ruben. Purtroppo poco tempo dopo il prefetto di Napoli ha parzialmente cancellato la trascrizione, allegando sostanzialmente che per la legge italiana io non sono nessuno. Il comune di Napoli ha giá fatto partire il ricorso al Tar e noi stiamo preparando il ricorso al tribunale ordinario.”
- Quale è stato il momento più triste e il più felice di tutta questa vicenda?
“Penso che il più triste sia stato la prima volta che siamo state in Consolato, dove non ci hanno dato speranza. Sembrava che veramente non si potesse fare niente. Per fortuna è subentrata la rabbia e abbiamo reagito.
Il più felice direi quando il comune di Napoli ha trascritto la sua nascita. Stava riconoscendo lui come cittadino e noi come famiglia.”
- Che ruolo ha avuto la vostra rete di contatti qui a Barcellona e in Italia?
“Alcuni amici qui e a Napoli hanno funzionato come una rete di supporto assoluto. Molte persone hanno fatto piccole cose che ci hanno permesso di risolvere la situazione. Una sorta di azioni a catena.
Sarebbe molto bello se tutto funzionasse bene, in maniera veloce e non ci fossero intoppi. Ma purtroppo non è così. Noi abbiamo avuto fortuna, ma un’altra famiglia poteva rimanere bloccata in questa situazione e questo non dovrebbe succedere. L’unica maniera, però, sarebbe avere una legislazione chiara in merito a questioni di omogenitorialità.”
- La legge Cirinnà non ha ancora terminato il suo percorso e, alle già enormi difficoltà che la sua approvazione sta incontrando, si affiancano gli anatemi e le sterili polemiche dei numerosi personaggi che hanno fatto dell’omofobia e della discriminazione un redditizio lavoro e una bandiera, ora anche politica. Come vivete e percepite queste vicende, da donne espatriate in un Paese in cui, sebbene la strada non sia ancora conclusa, la parità di diritti fra i cittadini indipendentemente dall’orientamento sessuale e affettivo è una realtà da tempo?
“Nonostante la distanza fisica, quella emotiva non c’è. Sentire e vedere tutto ciò che è successo durante la discussione del ddl è stato triste e frustrante. Il dibattito era molto superficiale e strumentalizzato. Non sarà facile superare la chiusura e l’ignoranza sull’argomento che c’è in Parlamento.”
- Come procede la vostra nuova vita da mamme expat e come vedete il futuro di Ruben qui a Barcellona?
“Procede bene! Ovviamente siamo stanche come tutte le mamme alle prese con un bimbo di pochi mesi, ma molto felici. Ruben ogni giorno fa qualcosa di nuovo e diverso. Vederlo crescere è bellissimo.
Il futuro chissà dove ci porterà, per adesso facciamo giorno per giorno.”
- Ed ora la domanda fatidica che ogni persona espatriata si è sentito fare almeno una volta (o 100) nella sua vita: tornereste a vivere in Italia? E perchè?
“Torneremmo con delle condizioni. Avere la possibilità di lavorare in primis. Poi c’è il discorso del riconoscimento delle famiglie omogenitoriali e più in generale dell’essere omosessuale in Italia. Torneremmo per lottare, ma non contro i mulini a vento.”
Ho parlato molto con Sara della vicenda di Marta e Daniela, una storia che potrebbe essere la nostra che, già da tempo ormai, siamo animate dal desiderio di allargare la nostra famiglia esattamente come loro.
Mentre da tutto il mondo continuano ad arrivare alle nostre orecchie notizie dei sempre più numerosi Stati esteri che hanno finalmente eliminato le discriminazioni sulla base di orientamento sessuale dalle legislazioni locali, tutelando l’omogenitorialità e la vita famigliare delle coppie dello stesso sesso, rimaniamo qui, lontane dal Paese che ci ha dato i natali, con appiccicata addosso una sensazione di impotenza nel vedere i nostri Diritti usati come merce di scambio nei giochi politici italiani, ma con dentro il fuoco inestinguibile della forza e della fiducia nel futuro che solo la sete di uguaglianza e l’amore reciproco possono regalare.
Un abbraccio quindi a Marta, Daniela, Ruben e a tutte le famiglie italiane che dallo stivale o dal resto del mondo continuano a sperare e sognare, come me e Sara, un’Italia senza discriminazioni.