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Cosa dice la famiglia del tuo espatrio?

di Elena Vancouver
famiglia

E la tua famiglia cosa dice?
Quando abbiamo detto ad amici e parenti che saremmo partite, quando raccontiamo la nostra storia alle nuove persone della nostra vita, quante di noi si sonofamiglia-espatrio sentite rivolgere la fatidica domanda “e i tuoi che dicono”?
Probabilmente tutte. E cosa dicono dunque “i nostri”, ovvero la mamma e il papà, i fratelli e le sorelle che abbiamo lasciato in una parte del modo lontana da quella che oggi è la nostra casa?
Nell’immaginario collettivo delle persone che sentono le storie dei migranti, che conoscono il fenomeno ma non ne fanno parte, le famiglie sono sempre un perno di supporto ai progetti dei figli che si spostano in cerca di un futuro migliore… eppure non è vero. O meglio, è quel “sempre” a non essere vero.
Le famiglie sono croce e delizia per molti di noi expat. Tanti vengono incondizionatamente supportati dei genitori e ammirati dai fratelli, ma altrettanti raccontano storie diverse. Storie di fuga da ambienti difficili dentro e fuori casa, storie di lotte per lasciare il nostro Paese non dico con la benedizione dei genitori ma almeno senza porte sbattute in faccia. Storie di recriminazioni tra fratelli perché “se te ne vai tu poi lasci tutte le grane a me!”
Un figlio che se ne va tanto lontano non è una cosa facile da accettare. Noi non ci aspettavamo 10 o 15 anni fa che saremmo diventati nuovamente un popolo di migranti come nei primi del novecento. I nostri genitori, figli dell’abbondanza degli anni ’70 e ’80 non si aspettavano di doversi separare da noi perché non ci sarebbero state alternative. I nostri fratelli con i quali era difficile condividere certi spazi non avevano fatto i conti che quello spazio, un giorno, sarebbe stato solo per loro.
famiiglia-espatrioCe ne siamo andati e questo, per alcuni dei “nostri”, è stato un tradimento, una scelta egoistica, un passo non necessario ma fatto per il gusto di porre chilometri e chilometri tra noi e le beghe di casa, perché ci siamo innamorate di uno straniero, perché siamo troppo ambiziose. Ovviamente ogni famiglia è un caso a parte, ogni figlio è diverso, ogni progetto migratorio ha mille motivazioni dietro che non si possono ridurre tutte alla famiglia. Eppure mi ha meravigliato sentire quanti figli, dai 20 ai 40 anni son partiti mettendo in gioco tutto, rischiando molto e non potendo nemmeno contare sull’approvazione dei genitori, che si chiudevano in incomprensibili lunghi offesi silenzi o si ponevano in totale conflitto con loro.
Così molti di noi si son vissuti le prime fasi del cambiamento facendo poche telefonare a casa, solo per dire che erano vivi, non hanno chiesto aiuto, non hanno confidato le loro paure a quelli con cui sono cresciuti insieme. Per qualcuno è stata molto dura, per altri uno sprone a fare meglio e di più, una rivincita su quanti avevano detto “ma dove vai? ma sei sicuro? e se poi va male? ma chi te lo fa fare?”
Molte volte il tempo cura queste ferite, gli strappi si ricompongono, i genitori capiscono, ragionano, vedono i tuoi amici che sono rimasti partire uno ad uno o languire in un limbo di indeterminatezza economica e personale e tu, che magari fai il giardiniere con una laurea in farmacia, tu hai casa tua, guadagni bene, vivi in un posto pulito, civile, hai delle prospettive di crescita ma sopratutto: sei felice. Se sei felice, ad un certo punto, tutti ammettono che hai fatto bene. Magari non capiscono fino in fondo la tua scelta, ma si rendono conto che dove stavi non saresti stato così bene e preferiscono il tuo benessere al loro, realizzano che le scelte che abbiamo fatto non hanno il proposito di ferire gli altri ma quello di aiutare noi stessi

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