C’è un vecchio proverbio africano che dice che “per crescere un bambino serve un intero villaggio”.
Ed è esattamente così, nessuno meglio di una mamma expat può saperlo. Ormai è cosa molto comune vivere in microfamiglie, pochi hanno al fortuna di godere di una vera famiglia allargata anche quando vivono in Italia. La vita oggi è molto diversa da quella dei nostri nonni che crescevano in clan numerosi. Lì trovavano lo scontro con il fratello maggiore ma anche il consiglio del cugino, l’abbraccio della mamma e quello delle nonne, l’esperienza del padre ma anche quella dello zio, le storie fantastiche e la pazienza dei nonni. Erano maestri per i più piccoli e alunni dei membri più adulti, vivevano in una rete intricata e resistente di sentimenti che li sosteneva fisicamente e psicologicamente per tutta la vita.
In questi ultimi mesi lontano da casa con mio marito ed i mie bimbi prossimi a compiere 7 anni ho osservato attentamente la loro crescita, e la mia anche, e non ho potuto fare a meno ci percepire la grande solitudine che ci circonda e contro al quale tutti e quattro sin da principio abbiamo iniziato a lottare. Abbiamo riempito il vuoto con nuove forti amicizie, abbiamo coltivato al meglio delle nostre possibilità i legami con gli amici lontani, abbiamo insegnato ai nostri genitori ad usare le ultime tecnologie per sentirci più vicini ma la solitudine c’è e si fa sentire. Questa estate avere i miei suoceri con noi ci ha fatto tirare un gran sospiro di sollievo. Che liberazione condividere le fatiche della casa, della famiglia, della quotidianità con persone che ti vogliono bene. Come è importante che i tuoi figli abbiano al possibilità di fare una domanda o di chiedere aiuto non solo a te. Che ricchezza per loro godere del calore e della conoscenza di altre persone della famiglia. Quando sono partiti abbiamo capito cosa ci era mancato finora e quasi non ce ne eravamo resi conto. Non avevamo saputo classificare il malessere della mancanza.
Qualche tempo dopo è venuto un mio caro cugino a trovarci ed i miei bambini (che lo vedevano per la seconda volta in vita loro) ci si sono cosi’ affezionati moltissimo in due settimane. Tanto che la sera della sua partenza abbiamo dovuto asciugare qualche lacrima.
A settembre la scuola mi ha mandato a casa un modulo. Il titolo era: ”In case of emergency”. Occorreva designare 6 adulti in grado di prendersi cura dei nostri bambini in caso di calamità naturale ove io e mio marito non avessimo potuto. Alla voce “Relatives” (parenti) non avevo nessuno da mettere. Alla voce “Relatives outside British Columbia” (fuori dalla nostra provincia)…non avevo nessuno da mettere. Ho segnalato sei amici, lasciando vuoti quegli spazi dedicati ai consanguinei. Quando ho consegnato il modulo e la segretaria mi ha detto: “allora se vi succede qualcosa chi si prende la responsabilità dei bambini?” Ho risposto laconicamente, “i miei amici”. Dentro di me mi son sentita morire. Ho pensato: cavolo, quindi è questa la sensazione di vuoto nello stomaco a non avere una famiglia? Eppure io no sono mai stata una particolarmente attaccata, anzi! A 18 anni via di corsa da casa, da una vita che mi sembrava limitata e stretta. Sono sempre stata molto indipendente, molto fiera di esserlo.
Ma in quel momento, realizzando ad alta voce il dato di fatto di non avere nessun familiare qui con me, mi è piombata addosso la certezza di non potermi appoggiare a nessuno ed è stata una vertigine di paura, non per me, ma per i miei bambini.
Da allora con una consapevolezza molto maggiore ho lavorato sodo per non far sentire questa mancanza, questa sensazione, ai miei figli. Ma la sentono… la sentono dall’inizio senza sapere cosa sia. Lo so perché hanno iniziato ormai da un po’ a costruire intorno a noi con le loro piccole manine e i loro grandi cuori un’altra famiglia fatta di amici che hanno scelto anche per noi. Così ci sono Costanza e Stefano che ai loro occhi sono come degli zii giovani giovani, che invitiamo a casa o al nostro onomastico perché ci piace stare con loro, disegnare per loro, giocare ai videogiochi con loro. Poi ci sono Milo e Lane che potrebbero essere dei cuginetti, che vediamo tutti i giorni e non c’è pomeriggio che non si cerchi di portarseli a casa o di andare a casa loro.
Poi ci sono Francesca e Nicola con i loro bambini piccoli con cui passiamo tutte le feste, dalla Pasqua al Canada Day e sembrano perfetti per mamma e papà come un fratello e una sorella.
Questi bimbi, dall’altro capo del mondo rispetto ai loro relatives hanno solo noi e lo sanno. Eppure avrebbero bisogno di tanti cuori, menti e mani diverse a sostenerli. Che grande responsabilità l’averli portati qui, che fortuna, in ogni caso, aver trovato una comunità così accogliente ed inclusiva, avere accanto questi amici che somigliano sempre di più ad una vera, bella e grande famiglia.
9 Commenti
Che belle queste parole e quanto mi hai fatto pensare..anche o vivo fuori dall ‘Italia..da 1 anno..e a volte mi spiace e mi sento in colpa ad aver tolto ai miei piccoli la vicinanza e l apporto affettivo dei nonni a cui sono legatissimi..certo c’e skype..ma non è l ‘ abbraccio rassucurante e caldo dei nonni..
Forza Barbara!
Mi separa solo un’ora di aereo dai miei genitori, ma devi dire che da quando sono qui il pensiero va sovente al “se mi succede qualcosa”. Non sono una mammona una di quelle persone che devono passare il fine settimana con i genitori o che chiama tutti i giorni, pero’ l’idea della vicinanza e’ di conforto quando hai un bambino da crescere.
Annalisa sono d’accordo con te! quel “dovesse succedere qualcosa” è straziante!
Vivo all’estero da un anno, e ho ricevuto la “maledetta telefonata” due volte. Non auguro nemmeno al mio peggior nemico esperienze del genere! Secondo me non è essere mammoni, è essere persone che amano. Se non amiamo la nostra famiglia e i nostri amici, che viviamo a fare?
Restare vecini alle nostre famiglie sembra sempre la cosa più giusta sopratutto quando arrivano dei figli. Tuttavia è proprio per loro che si parite….
si parte *
Grazie per la condivisione di questi sinceri pensieri ed emozioni. Io e mio marito stiamo progettando di emigrare proprio in Canada, anche noi con i nostri piccoli di 4 anni e mezzo e 2. Aggiungiamo riflessioni alle riflessioni.Grazie
Siamo qui per questo 🙂
Anche io vivo in Canada,da due anni ma non sono ancora riuscita ad abituarmi al cambiamento, nonostante mi sforzi e cerchi di trovare un lato positivo.
Ho avuto qualche lacrima leggendo il tuo racconto perché il ” se mi succede qualcosa ” è un pallino fisso che mi tortura e a causa del quale piango senza purtroppo trovare una risposta.
Ma non è solo questo che non mi fa stare serena bensì la mancanza di affetti che i miei figli vivono. Io vengo da una famiglia numerosa con cui condiviamo molti momenti della vita e noto con molto dispiacere che, quando mi chiama su skype e cerca di tessere dei rapporti con la mia bimba più grande,lei è distante non sente quel legame che invece si sarebbe già creato se vivissimo vicino a loro.
È dura fare certe scelte e capire se siano state giuste o meno.
È dura cercare di ricreare dei rapporti e colmare i vuoti che un oceano crea.