Quando succede qualcosa di grave in Italia, tutti i residenti all’estero sono in ansia sentendosi inutili e impotenti in proporzione alla distanza da casa.
Dopo le notizie da Ischia, mi sono ricordata della scossa dell’estate scorsa: al tempo ho parlato a lungo con i miei genitori di questo argomento e ho saputo da loro che, come al solito, in tv e negli articoli, il Giappone è saltato fuori molto spesso.
Chiacchierando noi tre, sono arrivata a realizzare una profonda differenza tra i due paesi che, in realtà, avevo presente anche prima, ma che non avevo mai analizzato con cognizione di causa.
Ma andiamo con calma, perché molti analizzano i fatti improvvisandosi sismologi, geologi o quel che è, senza in realtà sapere nulla.
Quindi io comincio con una doverosa premessa.
Doverosa premessa: la mia esperienza di terremoti
Avendo vissuto la maggior parte della mia vita a Milano, ammettiamolo, la mia esperienza è minima.
Giusto per darvi un’idea, la prima grande scossa che ricordo risale alla mia quarta liceo: stavo chiacchierando al cellulare sotto le coperte con il mio fidanzato di allora quando sentii il letto muoversi e pensai che la mia gatta ci fosse saltata su con i suoi grassi chiletti coperti di pelo.
Le scosse in Emilia di qualche anno fa, invece, non mi hanno trovata altrettanto rilassata.
Sono state anche di più e percepite più forti.
La mia paura in Italia è dovuta alla consapevolezza che la mia casa e quelle intorno non sono costruite per resistere ai terremoti.
Trasferirmi in Giappone, sotto questo punto di vista, potrebbe essere definito un salto “dalla padella alla brace”: qui abbiamo ripetute scosse quotidiane lungo tutto l’arcipelago ed è risaputo che entro i prossimi 30 anni arriverà una scossa gigantesca nella regione del Kanto, sotto la quale si incontrano ben tre placche tettoniche. (La cosa buffa è che sono sempre “i prossimi 30 anni”, quindi prima o poi ci azzeccheranno, no? Un po’ come gli oroscopi.)
A volte mi chiedo per quale masochistica ragione io sia ancora qui.
Ovviamente una scossa non fa parlare.
“L’hai sentita quella di stamattina?” No.
Altrimenti si parlerebbe solo di quello e la varietà linguistica del giapponese si fermerebbe alle parole utili per un discorso di sismologia.
Spesso le persone non fanno niente quando arriva la scossa, al massimo ho sentito dire: “E’ una scossa?” con lo stesso entusiasmo con cui chiedereste: “Mi passi lo zucchero?”
La mia quasi accettazione della tragica realtà ballerina del paese è andata a fasi, del tutto personali, ma nelle quali anche alcuni altri amici si sono ritrovati.
Fase 1: il tormento
Quando le senti tutte.
Di giorno, di notte, da sveglia, da addormentata. Tutte.
A me è durata circa 3 mesi, ma è quasi inesistente quando si viene per turismo, periodo nel quale si è spesso in movimento e quindi si ha meno possibilità di percepire movimento sotto i piedi.
Fase 2: sogno o son desta?
Quando cominci ad abituarti e, a meno che non siano forti, di giorno non le senti più.
Di notte invece non ne sei tanto sicura: se la scossa c’è stata, ti ha spinta appena fuori dalla fase REM per poi finire e lasciarti ripiombare nel sonno.
La mattina dopo ti svegli chiedendoti se c’è stato effettivamente un terremoto, se è stata una sensazione mentre ti rigiravi nel sonno o se è stato semplicemente un sogno.
Anche questa fase è durata circa 3 mesi.
Fase 3: que serà, serà
Dopo mezzo anno ho raggiunto uno stato in cui, a meno che non fossero forti, ormai non sentivo più niente, men che meno se stavo dormendo.
E sarebbe il paradiso, se non che ogni tanto la realtà arriva a tirarti una pizza in faccia e la fase 3 si alterna alla…
Fase 4: l’angoscia dell’inevitabile
L’occasione è una scossa particolarmente forte.
Di quelle che fanno parlare anche i giapponesi, con il conseguente abbandono del tono da “passami lo zucchero” di cui sopra.
In questa fase generalmente l’ansia che rimane lì a dilettarsi con i tuoi nervi ti fa sentire anche le scosse che in realtà non ci sono.
Sicuramente, in questo caso, ho un po’ meno paura per la casa in sé dato che la tecnica di costruzione è ragionata apposta per queste eventualità.
Quindi una scossa piccola, che in Italia mi preoccupa subito, qui non terrorizza, ma la consapevolezza che quella potrebbe non essere affatto una scossa piccola mi spaventa ugualmente.
Insomma, non c’è scampo: né in un paese, né nell’altro.
Contro i terremoti, in Giappone
Detta qual è la mia esperienza a riguardo, veniamo ad aspetti più pratici.
Il Giappone è sicuramente più avanti rispetto all’Italia nelle costruzioni antisismiche e nell’organizzazione riguardo la prevenzione (per quanto possibile) dei terremoti.
Per sapere questo non ci vuole una laurea.
Quando si affitta un appartamento o una casa, il prezzo varia in base a molti indici e uno di questi è l’anno di costruzione.
Questo parametro c’è anche in Italia, certo, ma se da noi la datazione può avere valore storico o rappresentare il vantaggio di una casa nuova di zecca, non ancora modificata, bucherellata e riverniciata da inquilini precedenti, qui simbolizza tutt’altro: la qualità dei materiali e delle tecniche antisismiche utilizzate per tirare su l’edificio.
Più è vecchia la casa, meno sarà il suo valore sotto quell’aspetto.
Per dire, la share house dove vivevo prima era in un edificio dell’86, quindi considerata già una costruzione vecchiotta; tra l’altro, non avevo tavoli né letti sono i quali ripararmi, ed era meglio svignarmela in strada il prima possibile se la scossa si fosse rivelata molto forte, prima di vedermi cadere addosso l’edificio.
Quando le scosse sono significative, i treni si fermano lì dove sono; ogni istituto scolastico e anche molte grandi aziende hanno piani di evacuazione provati anche più volte l’anno.
Alcune hanno dei kit di sopravvivenza sempre pronti, che comunque si possono comprare normalmente in alcuni negozi, a circa 5.000 yen e tenere in casa.
I cellulari hanno un dispositivo che suona pochi secondi prima dell’arrivo della scossa.
Inizialmente non ne sapevo nulla e il giorno in cui a lezione tutti i cellulari dei compagni hanno improvvisamente cominciato un coro di sirene sono saltata sulla sedia.
In un nanosecondo ho immaginato le peggiori catastrofi informatiche: “Il millennium bug è arrivato in ritardo solo per distruggere anche gli smartphone inventati dopo l’anno 2000. Che piano geniale!” (Sì, ammetto di avere molta fantasia).
Invece no, ho perso 10 anni di vita su quello che ho scoperto essere l’avviso anticipato dell’arrivo di un terremoto.
Ovviamente a quel punto la scossa non poteva più spaventarmi, avevo già la tachicardia, e ancora oggi sospetto che la app sia basata su questo: spaventare deliberatamente l’utente di modo che, quando arriva la vera minaccia, essa venga percepita come una semplice scorreggina tra placche.
I cellulari più nuovi hanno questo avviso installato di default, soprattutto gli iPhone che sono i più usati, ma esistono anche applicazioni free che sono una gran cosa, solo che ogni tanto non avvisano nello stesso tempo delle applicazioni dei più nuovi, o non avvisano affatto… per la serie “tu e il tuo cellulare antidiluviano potete schiattare dove vi trovate” (e io che ho un iPhone 4 devo arrangiarmi).
La cultura delle cose che durano e la cultura dell’impermanenza
Veniamo finalmente alla profonda differenza che ho realizzato dopo il discorso con i miei, che ovviamente non è quella della modalità di costruzione moderna.
Quella già la sapevamo.
L’italia è un paese meraviglioso.
Prendiamo in giro i turisti giapponesi dai tempi della bubble economy, dicendo che sono sempre quelli con in mano la macchina fotografica a scattare foto a qualsiasi cosa (nota a margine: i turisti in Giappone fanno la stessa identica cosa, smettiamola con ‘sta vecchia battuta, magari).
Dovremmo invece realizzare il perché lo facciano: perché quando una cosa è bella, vuoi immortalarla, vuoi ricordarla, e tra le città giapponesi e quelle italiane, signore e signori, non c’è paragone.
Lo dicono loro stessi che ogni cosa nelle nostre città è bella: i contorni di una finestra, le scale di una casa, la pavimentazione di una strada, oltre ovviamente ad edifici, arte, fontane, paesaggio, mare e natura.
Le città giapponesi sono brutte.
Aiutatemi a dire brutte.
Il bello è qualcosa di particolare che va preservato e conservato in maniera particolare, non è qualcosa di cui circondarsi, così gli unici luoghi esteticamente piacevoli sono i templi, i parchi, i castelli.
Non so cosa ci sia scritto sulle guide turistiche italiane del Giappone, io ho girato Kyoto con in mano una guida in giapponese e mi ha insegnato che tutto ciò che ho visitato non era originale, era bruciato o era crollato, o era stato colpito da un fulmine per poi essere ricostruito in tempi più moderni.
Certo, erano bei posti, ma in certi casi mi sentivo come all’interno di un parco giochi, perché tutto era ricostruito, per certi versi falso, e spesso non percepivo il tempo e la storia di quei luoghi.
Erano belli ma anche tristi, perché non veri.
Comunque, a parte questi luoghi particolari, il punto di forza delle città giapponesi non sta nell’estetica, bensì nella funzionalità.
La rete dei mezzi è amplissima, rapida ed efficiente (sempre che nessuno si suicidi sui binari, in quei casi va tutto in tilt per ore, e che non sia l’ora di punta del mattino, durante la quale il ritardo è all’ordine del giorno).
C’è una quantità di supermercatini aperti 24 ore su 24 paragonabile a quella dei nostri bar, tante piccole cliniche, scuole, università, posti di polizia e caserme dei pompieri.
E nel tempo in cui a Roma costruiamo qualcosa (perché “scavi lì e ci sono delle mura romane, scavi là e c’è una casa antica”), i giapponesi hanno già cambiato faccia ad un quartiere due o tre volte con case più nuove, edifici più resistenti e negozi funzionali.
Perché se scavi in Giappone molto probabilmente non c’è nulla.
In un paese flagellato dai terremoti gli edifici cadono, in una cultura di costruzioni in legno le case bruciano.
In Giappone abbiamo un paesaggio cittadino brutto, ma meccanicamente perfetto che rinasce migliore dalle ceneri di una continua devastazione.
Quella dell’Italia, pur essendo una realtà sismica, è una cultura di cose che rimangono.
E’ una cultura di pietra, con mura che resistono meglio agli incendi e alle scosse rispetto al legno.
Abbiamo quindi un paesaggio cittadino e un valore storico invidiato in tutto il mondo, ma non facilmente adattabile ad una società che si è ormai evoluta e ha altri bisogni.
Quindi quali alternative ci sono?
Un paese brutto privo di edifici storici reali, ma solido, oppure un paese bellissimo che magari negli anni sparirà, perché distrutto dalle scosse alle quali non sa resistere?
Parlando con mio padre che è architetto, la terza alternativa c’è: tecniche per “sorreggere” un edificio storico, per rende più sicura e proteggere la storicità dell’Italia, senza rinunciarci.
Il punto è che costa e buttare giù tutto per ricostruire sarebbe invece molto più economico e in Italia c’è bisogno di denaro in tanti settori, tutti importanti, quindi non è un discorso così semplice.
In conclusione, non voglio dare una risposta, non sono nessuno e non ho nemmeno studiato in questo campo.
Ma voglio fare presente a chi nei salotti italiani dice “dovremmo fare come in Giappone” che non ha idea di cosa stia proponendo.
Perché “come i giapponesi” significa buttare giù tutto e rifare, significa dimenticarci di un paese con un valore storico unico al mondo.
Possiamo ispirarci, imparare e chiedere aiuto al Giappone, certamente, ma la risposta a questo problema deve essere nostra, italiana.
Chi sono
2 Commenti
Bisogna fare come fanno i giapponesi, per le abitazioni civili ed i palazzi pubblici nuovi, ovvio che l’antichità va preservata. Stando al centro del cratere eel sisma 2016 le posso assicurare che ho visto due casi limite:
Ospedale della città in cui vivo costruito nel 1997 da ditta napoletana velocemente rileguata e disciolta che è venuto giù frantumandosi.
Mura romane antiche, alte tre metri e larghe uno, fatte oramai di sassi e pozzolana visto che l’esterno è saltato e depredato neo secoli passati in località Urbisaglia (Macerata) che non si sono mosse per nulla, neanche nei punti in cui sembrano danneggiate o in bilico. La veri è un altra, in Italia le costruzioni cadono perché furbescamente costruite a “risparagno” come diciamo noi marchigiani 😛 , e poi infinitamente confinate. Molti comuni mancano di piani regolatori, fermi per interessi ora politici, ora di spartizione di lavori, la gente costruisce quindi abusivamente, come può è quindi male; passa il terremoto che se ne frega e giustamente butta giù tutto. Chieda se questo è plausibile a do padre, vedrà che da architetto professionista mi darà ragione.
Grazie del commento.
Ci sono due argomenti sempre usati in Italia quando si tocca l’argomento dei palazzi che crollano dopo un terremoto: “la gente che ha lucrato e/o lucrerà sugli edifici ora crollati” e “dovremmo fare come i giapponesi”.
Più che stare a dire quanto gli interessi politici ed economici siano un problema in questi casi, argomento sul quale non ho alcuna esperienza per sviluppare un post o dare spunti su cui riflettere, io ho voluto dare modo a tutti quelli che dicono questa cosa, “facciamo come i giapponesi”, di pensare un attimo più a fondo che cosa significa, perchè stanno confrontando due realtà di costruzione, due storie e due culture edilizie totalmente differenti.
Indubbiamente in Italia esiste anche un problema di origine politica (e criminale) nella realtà edilizia italiana, ma ho volutamente lasciato da parte quel discorso.