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GRIGIO: come il cielo sopra Utrecht, come la maglietta di Th.

di Katia
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Testimonianza inviataci da Elisabetta, Utrecht. Olanda


grigioLa prima volta che ho visto Th. lui indossava una maglietta grigia.

Una semplicissima t-shirt grigia, di quelle intime, aderenti, elasticizzate ed insulse, che infili di fretta per andare a dormire o che metti perché solo con il maglioncino hai freddo. Ma quel giorno ad Utrecht, non era freddo. Quel giorno Utrecht mi sembrava una meraviglia, o forse perché la meraviglia la vidi dipinta negli occhi di Th. mentre mi guardava, come una cosa mai vista prima, come una curiosa opera d’arte, come una terra lontana. Tra me e me pensai di non aver visto mai nella vita una t-shirt così orribile e perfetta: come una seconda pelle gli fasciava l’addome, le spalle, quelle spalle che avrei imparato a riconoscere tra centinaia di spalle e il tattoo gli scivolava giù dalla manica del braccio destro, come una goccia d’inchiostro nero che avrebbe disegnato le mie fantasie più sopite.

Il cielo sì, era grigio sopra Utrecht quella sera, come forse tutte le sere.

Quando vai a vivere all’estero è forse la prima cosa da cui ti mettono in guardia: “Eh lì il tempo è sempre di un grigiore!”, quasi come una profezia, quasi come una condanna.

E per me che vengo dal paese del sole questa è stata una delle prime preoccupazioni; mi manca camminare nel sole, mi mancano i vicoli di Napoli che ardono e diventano caldaie di caos e d’amore. Ma Utrecht è stata la più severa ed esigente delle mie insegnanti, per cui come tutte le insegnanti più severe ed esigenti, alla fine finisci col volerle bene, col cercare la sua approvazione.

Non si può andare nella direzione opposta del proprio stato d’animo, e la mia stella polare, la mia pelle, il mio cuore, mi sussurrava che il grigio cielo di Utrecht non era una punizione, ma un’opportunità, forse un riscatto, una possibilità per fare meglio. Per riuscire.

E d’altronde il colore grigio non ho mai voluto drammatizzarlo, perché semplicemente non mi è mai dispiaciuto. E’ il colore dello zucchero filato, dei miei calzini di lana preferiti, del fumo che esce dai comignoli dei caminetti d’inverno e l’aria prende quel profumo di legna bruciata; grigio è il colore delle venature del marmo delle chiese, delle mie sudicie scarpette da jogging, del primo ombretto che mi è stato regalato quando avevo 12 anni, delle pagine dei quotidiani freschi di stampa; grigio è il colore delle corde della mia chitarra, dei ferretti del mio vecchio apparecchio ai denti. Grigio è il colore degli occhi di mio padre e quel giorno il grigio era anche il colore della t-shirt di Th. che seguitava a guardarmi, a sorridermi.


Quando sei all’estero, parli in una lingua differente, assaggi piatti che mai e poi mai avresti pensato di mangiare, ti appigli a qualsiasi cosa pur di sentirti a casa e di costruirti la tua strada
; una strada in salita, lastricata di ostacoli che solo tu puoi superare. Tutte le mie paure più irrazionali sembravano in attesa di assalirmi qui, in Olanda: “e se cadessi in un canale mentre cerco di andare in bici senza mani? E se perdessi l’ultimo treno che mi riporta a casa? E se i lacci delle scarpe si incastrassero nei pedali? E se sembro un’idiota infagottata con tre sciarpe? E se il mio accento quando parlo in Inglese o in Olandese fosse troppo strano? E se si capisce che ho nostalgia delle domeniche in famiglia?”.

Utrecht mi ha fatto da specchio, uno specchio che ho intravisto nelle pozzanghere che mi riflettevano il cielo grigio delle mie paure. Crescere non significa non avere paure, ma credo significhi un po’ sapere di poterle affrontare. Esse non spariscono, sono sempre lì a sogghignare, ma tu le affronti. Ed è stato allora che ho afferrato questa verità: il colore grigio non era poi così terribile, poteva trasformarsi, aprirsi o scurirsi. La tonalità la potevo decidere soltanto io.

Così ho smesso di pensare a quello che volevo e ho cominciato a pensare a quello che invece potevo fare e ho smesso di avere paura. Non ho mai avuto paura di dire che avevo terminato gli studi all’Università di Napoli per poi “emigrare” perché da “Noi” c’è poco lavoro o quanto meno non c’è il rispetto che una persona crede di trovare in un ambito lavorativo qualsiasi. Non mi ha mai spaventata fare le valigie, incastrarci dentro tutte le mie cose, i libri, le mutandine, i ricordi, i sogni.

Non mi ha fatto paura essere una bandiera italiana in un territorio straniero, scoprirmi a canticchiare canzoni che credevo di aver rimosso, che mia madre cantava quando ero bambina, mentre si truccava. Non mi ha spaventata riscoprirmi a replicare una ricetta di mia nonna o ascoltarmi mentre raccontavo una leggenda tratta dalla storia di Napoli e del suo popolo. Non ho mai avuto paura di accompagnare ai tavoli, pedalare sotto la pioggia gelida, inamidare colletti, parlare di fronte ad una classe di bambini o spiegare una presentazione in power point ad un team internazionale. Non ho mai avuto paura di mettere su Einaudi per avere un po’ di compagnia o di sorridere ad un’estranea alla fermata del bus.

Quella sera non ebbi paura neppure di Th. e mi aggrappai a quella sensazione forte, intensa dei suoi occhi caldi come un nido di un albero cavo; senza saperlo lui accarezzava le mille paure da cui ero stata accuratamente lontana. Ma il fulmine non avvisa quando cadrà: lui si manifesta e basta. Ed io mi sentii come un fiore che sboccia su un terreno dove da troppo tempo vi era stato il gelo. E la sua t-shirt grigia finì col divenire il mio pigiama, la tavolozza che usavo per colorare il suo respiro, le nuvole, un piatto di pasta, la musica cantata a squarciagola sotto la doccia, una corsa fatta per i parchi innevati di stupore con il fiato corto. Una fragile promessa.

Se parti per l’estero e metti in dubbio la tua felicità o addirittura te stessa, cerca di avere fiducia nella parte più interna di te, quella parte che ti bisbiglia che puoi farcela, ovunque sia il tuo cammino. Non avere paura: il modo lo troverai semplicemente andando.

Non ho mai sopportato quelle persone che solo guardando la vita che faccio, esclamano a mo’ di sentenza: “Ah come una piuma nel vento; vai alla ricerca di te stessa”. Cosa ci sarà di male nell’essere una piuma nel vento? E soprattutto, cosa c’è di male nell’accettarsi? L’errore risiede nel fatto che volare non significa che io non mi conosca. Io già so chi sono. Non ho bisogno di cercarmi. Ma solo di ascoltarmi, di andare in un posto dove io possa concentrarmi perché è più facile fare silenzio, di mettermi sulla giusta frequenza della mia anima e la mia anima riesce a fabbricarsi un porto sicuro in ogni angolo dove ho vissuto durante questi lunghi interminabili mesi.

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Perché io all’estero ci ho vissuto, non è stato semplicemente un risiedere: vado al cinema, sposo abitudini sconosciute, faccio shopping con le amiche che hanno nella voce la mia stessa vibrazione di determinarsi l’esistenza; catturo immagini, colleziono sensazioni positive, mi fido delle frasi spezzate delle persone che incontro. Perché la vita non è tutta nera o tutta bianca, ma una miriade di sfumature di più e più grigi. Come il cielo sopra Utrecht, come la maglietta di Th.

L’amore che provo per le cose che ho visto nessuno potrà mai portarmelo via; la forza di volontà dei tulipani che fioriscono dopo un rigido inverno, le pale dei mulini a vento che vorticano, il mascara sciolto sulle guance per via della pioggia, i mercatini dell’usato di Delft, i karamelstropffelwaffels caldi di Gouda, quella birra ambrata in un bistrò ad Amsterdam, i lenti pomeriggi passati a leggere davanti ai davanzali.

Se a Napoli, la mia terrà d’origine, il mio ventre, le mie radici, mi sono sempre sentita un po’ un pesce fuor d’acqua perché “tu sei troppo bionda, sicura di essere napoletana? Hai gli occhi azzurri, sicura di essere napoletana? Non parli quasi mai il napoletano, sicura di essere nata a Napoli? Sei troppo precisina, sicura di essere napoletana?”, qui nella terra delle aringhe crude, del formaggio fuso e del burro chiarificato mi sono sentita stranamente a casa.

Mai e poi mai avrei pensato di affezionarmi ad una città che sfoggia quasi sempre un cielo grigio fumo, ma io qui mi mimetizzo e le persone mi trattano come una di loro, senza chiedersi perché ho così tante lentiggini su una pelle così bianca. Le mie espressioni divengono a poco a poco camaleontiche e vivere in Olanda diventa il mio presente.

A te che leggi, ti auguro di avere quel pizzico di follia e quella manciata di fiducia in più per metterti ad ascoltare te stessa, ed andare. Alla fine ti assicuro che scoprirai quello che sapevi già.

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10 Commenti

Patricia 09/02/2017 - 16:32

Bellissimo!!!grazie.

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Elisabetta 09/02/2017 - 19:49

Grazie a te Patricia! 🙂

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Federico 09/02/2017 - 23:11

Solo una cosa: bravissima! Bellissimo post.
(Firmato: un altro italiano in Olanda 🙂 )

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Elisabetta 10/02/2017 - 09:54

Grazie mille Federico! 🙂

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Laura 09/02/2017 - 23:31

Grazie Elisabetta, sembra tu stia vivendo la mia stessa vita, le mie stesse situazioni, le mie stesse emozioni. E quante volte mi son sentita dire ma come caaaspita fai a sentirti a casa in un Paese grigio come questo? e io sorrido sempre, perché le ragioni le so io, sono nel mio cuore, e questo basta ❤ un abbraccio!

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Elisabetta 10/02/2017 - 14:48

Grazie mille Laura!:)

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Arianna Fusco 13/02/2017 - 17:56

bellissimo post, il mio ragazzo ed io ci trasferiamo ad amsterdam a fine anno , volevo chiederti siccome anche noi siamo di napoli se ti andava di darci qualche consiglio e se vuoi aiutarci con i documenti necessari per partire , grazie mille

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Elisabetta 15/02/2017 - 13:50

Ciao Arianna!
Con molto piacere, cercami su FB così parliamo in privato!

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Marco 22/02/2017 - 10:00

Una testimonianza straordinaria. Una scrittura fluida con un ritmo perfetto che lascia senza respiro. Sei l’orgoglio di Napoli.

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Elisabetta 24/02/2017 - 14:33

🙂
Ciao Marco, grazie..

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