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I frutti dell’espatrio

di Giulia - Norimberga
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I FRUTTI DELL’ESPATRIO

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Sicuramente, un frutto dell’espatrio è il mio amore per i cachi.

Ho snobbato la loro pianta nel mio giardino per anni per poi scoprire la dolcezza della loro polpa solo di recente.

Uno pensa poi con l’espatrio d’imparare tante nuove cose sul paese di adozione, invece si impara anche molto sulla propria terra di origine.

“Hai scoperto l’acqua calda”, potrebbe dire qualcuno!

Eppure, io mai avrei pensato che questi quasi 3 anni di espatrio a Norimberga mi avrebbero portato a una maggiore conoscenza del mio paese – l’Italia -, degli italiani e dell’italianità.

Tra le persone che ho incontrato e le esperienze fatte, sono giunta alla conclusione che sto capendo meglio il mio paese da quando sono qui rispetto ai precedenti anni in cui ci vissi.

Ho sempre viaggiato e vissuto in altri posti anche prima, ma sempre con un biglietto di ritorno in tasca!

Saranno forse gli anni che passano a portare una maggiore saggezza?

In parte sì, oltre al fatto che mi sono estraniata, essendo uscita dalla mia comfort-zone ed essendo lontana dagli affetti più cari.

Perché per quanto faccia male, staccarsi talvolta è necessario per progredire. Il che non significa abbandonare: ho imparato che la vita è troppo imprevedibile e piena di deviazioni che non si può mai dire MAI, per l’appunto!

Ricordo una mia amica siciliana trapiantata in Veneto lamentarsi spesso della nebbia in Val Padana. E io che ci ero nata manco me ne accorgevo, per me era semplicemente naturale. Ora in espatrio qui a Norimberga pagherei oro per avere anche un po’ di quel sole timido di gennaio che rasserena le tipiche fredde giornate invernali venete.

In cambio posso cedere il semi-perenne cielo plumbeo dell’inverno norimberghese!

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                                                                                                                       Il confondersi di cielo e terra

E dire che ho scoperto il matrimonio per procura di molti connazionali in auge fino agli anni ’70 in una rassegna di film sulla commedia all’italiana qui a Norimberga! Il film “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata” con Alberto Sordi ne dipinge, infatti, un ironico ma altrettanto grottesco quadro.

Poi parli con una collega sudamericana e scopri che lei è una testimonianza vivente di genitori che si sono sposati in questo modo.

Oppure, come citavo in un mio articolo precedente, come i tedeschi ci vedano così fieri della nostra italianità, degli sfarzi antichi dell’impero romano senza celare talvolta anche invidia: come se fierezza e l’essere tedesco non possano essere contemplati insieme.

Ascoltando una recente puntata di Limes, inoltre, ho appreso che siamo tuttora un paese molto più omogeneo dei nostri vicini europei, molto più di quello che crediamo. Questa dovrebbe essere una nostra forza! Eppure sembra essere la nostra maledizione, quella di essere “calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”, per citare Mameli.

Altra fonte di grande riflessione è l’attività lavorativa che, vuoi per caso vuoi per necessità, ho intrapreso qui: l’insegnante di italiano. Soprattutto sono i miei studenti universitari, quelli che DEVONO studiare la nostra lingua per forza, che mi hanno fornito gli insegnamenti maggiori. Sarà che sono giovani e che grazie a loro (o a causa loro) ho dovuto ripassare le varie regoline grammaticali assimilate 30 e passa anni fa.

Ho imparato quattro lingue straniere quando ero in Italia per sfuggire alla mia lingua madre. E me la ritrovo all’estero che mi acchiappa e mi intriga a volerla approfondire di più!

Comico pensare come, quando uno è madrelingua, gli altri lo vedano come sapiente custode di tutti i cavilli grammaticali. Spesse volte la scontata risposta “è così e basta” non convince neanche te che la devi spiegare… figurati chi se la deve intascare! Della sottile differenza fra ciascuno-ognuno-chiunque, ne vogliamo parlare?

Abbiamo una lingua che il mondo intero ci invidia, che parla di arte e di cultura, che sprizza musicalità in tutti i contesti. E la riscopri a centinaia di km di distanza attraverso gli occhi, le parole, i quesiti dell’altro.

Ho scoperto tuttavia, e non pensavo che l’avrei mai detto, che il mettere il verbo principale alla fine (come in tedesco, non a caso) ti obbliga a dire solo una cosa alla volta, permettendoti di essere più focalizzato su quello che si sta dicendo.

Talvolta, parlando in italiano, invece, mi ritrovo a pronunciare frasi su frasi in un’avvicendarsi di coordinazione e subordinazione senza fine. Quando parlo in tedesco sono invece diversa: una proposizione per volta. E questo sta lentamente cambiando anche il mio modo di parlare in italiano.

Di recente mi è capitato di emozionarmi alla presentazione in lingua italiana di una mia studentessa sulla sua esperienza di volontariato a Reggio Calabria. Così tanta energia e positività emanava, anche quando l’incipit tuonava “tutto a posto, niente in ordine”, come spesso si è sentita rispondere alla più semplice e retorica domanda del mondo: “come stai?”.

In Veneto non ho mai sentito questo modo di dire. Da noi non si usa, perché in fondo non pensiamo che le cose non vadano proprio. Dei miglioramenti da realizzare ci sono, questo sì. E scopri così tante piccole Italie, “isole felici” e altre meno, di cui avevo sempre sentito parlare, ma non attraverso le parole e gli occhi di una “straniera”.

Ho scritto questo articolo di getto. Sentivo la necessità di fissare emozioni e idee che affiorano, fluttuano e talvolta si assopiscono, ma che fanno inevitabilmente parte della mia vita in espatrio. Bastano degli episodi come questi citati per far riemergere con forza la consapevolezza di quanto siano importanti le parole e la mia lingua madre. E che poterla trasmettere agli altri è stato uno dei grandi doni che questa esperienza – talvolta dura – mi ha portato. Gliene sono grata!

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