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Il tempo che resta

di Marianna - Edimburgo
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Il tempo che resta

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Quando avevo tantissimo tempo spianato davanti, sentivo che era sempre tardi.

Ero sempre di fretta, cercando di decidere tutto presto, anzi prestissimo, soprattutto quando si trattava di prendere decisioni che riguardavano il mio futuro.

Ricordo che, dopo il liceo, sentivo dentro me la voglia di esplorare la psicologia, ero convinta che sarebbe stato interessante e che sarei riuscita a dare il meglio di me come psicologa, ma poi non lo feci.

Mi iscrissi a lingue perché le mie amiche andavano a quella facoltà e mi dissi che era la cosa più logica da fare, e che avrebbe dato un senso ai 5 anni di liceo linguistico che avevo fatto.

L’università cominciò; ero brava, riuscivo a prendere voti alti studiando poco più di un mese prima dalla data dell’esame, mi prefissai di finire “velocemente” perché cominciavo a contemplare l’idea di partire e vivere lontano.

Così, a 24 anni, mi laureai con una tesi in filologia romanza sul “Poema de Fernan Gonzalez”, della quale non ero strafiera perché ancora una volta era stata preparata in brevissimo tempo, per la foga di finire prestissimo e scappare via.

A dirla tutta, non mi interessava nemmeno l’argomento: lo trovavo noiosissimo, ma me lo feci piacere, per fare presto.

Arrivata a destinazione, mi misi subito a lavoro per imparare a sopravvivere da sola per la prima volta.

Mandavo domande per i più svariati lavori per la fretta di iniziare, e in questa fretta non riuscivo neanche a capire cosa mi piacesse davvero fare.  Tantissime volte mi ritrovavo in lavori che odiavo, e che lasciavo dopo pochi mesi.

E si ricominciava tutto daccapo.

L’unico aspetto della mia vita che andava a rilento erano le relazioni, lunghe, sbagliate, tortuose, complicate e sempre difficili da tagliare.

Ora ho 40 anni, sono moglie felice, madre innamorata di suo figlio, e sono in un lavoro che oramai faccio da un po’ e del quale sono contenta, mi diverte e ancora mi stupisce, che è sempre un bene, ma sento di nuovo il mio orologio interno ticchettare, come un cronometro.

Sento che la sveglia sta per suonare e non so che direzione prendere.

Davanti a me, nella mia mappa mentale, ci sono due strade: una è un corso di un anno per ottenere l’abilitazione completa per poter svolgere il mio lavoro a 360 gradi; un’altra è quella della psicologia.

Quarant’anni, mamma, moglie, insegnate di lingue, counsellor, psicologa, tornare all’università, studiare da casa, ne vale la pena? dovrei o no? me ne pentirò, lo rimpiangerò, lo faccio… e se poi non riesco?.

Io non so da che parte girare.

C’è chi mi dice che dovrei approfondire il mio settore, e io sono fondamentalmente d’accordo, ma c’è sempre la vocina che dice ora mai più, a 19 anni hai fatto quello che sembrava giusto, ma ora a 40 anni non puoi permetterti di fare la cosa giusta,  devi fare la cosa che ti piace!

Il tempo passa, i giorni iniziano e finiscono, le cose cambiano, ed io continuo ad andare di fretta.

Vorrei fortemente imparare a prendere tempo e a sentire cosa dice la mia pancia; l’ho fatto veramente poco fino ad ora.

Quante cose cominciate e lasciate a metà perchè ci voleva troppo tempo, e ora? Come si fa a imparare a prendersi tempo quando non sei più una ragazza libera dagli impegni della vita, come si fa a darsi una possibilità quando si sente che si sono giocate già tante carte?

Quante volte avete sentito la voglia di azzerare il cronometro della vostra vita e cambiare direzione? Quante volte avete pensato che non ne varrebbe la pena perchè il tempo a disposizione sarebbe poco?

Io sono esattamente là, in quello spazio che c’è tra il volere e il fare, spazio creativo e  distruttivo allo stesso tempo, dove tutto può succedere e nulla può cambiare.

E intanto il celo comincia a scurirsi e la giornata sta per diventare sera.

sera

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