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Jena e la bellezza di sentirsi a casa

di Samanta - Jena DE
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You have to find that place
That brings out the human in you.
The soul in you. The love in you.
Non sono nemmeno le cinque di mattina.
Cercando di non far rumore mi infilo le scarpe, la giacca, prendo la borsa ed esco di casa. Mi chiudo la porta alle spalle, accendo la luce dell’androne del palazzo e scendo le scale. La musica – questa volta Adore Delano, con la sua bellissima ballata “Butterfly” – mi riempie già le orecchie quando apro il portone ed esco dalla palazzina dove abito, immergendomi nel silenzio di Jena che – tolto qualche studente in vena di far festa e gli autisti dell’autobus – ancora dorme. È bella Jena a questa ora del giorno. Con le sue luci, le sue ombre e il suo essere immobile di fronte al frenetico muoversi di ognuno di noi. Inizio a camminare, passando davanti alla finestra di un’amica – dorme con la finestra aperta, come diamine fa a non prendersi un malanno? Mah… – e sorpassando la fermata dell’autobus, dove un paio di ragazzi decisamente assonnati aspettano il 15 e fumano una sigaretta. Potrei tranquillamente fare questa strada in bici, ci impiegherei meno della metà del tempo, ma quanti piccoli istanti preziosi mi perderei? Come la ragazza che cammina di fianco al fidanzato, con la giacca di lui drappeggiata sulle spalle e un vestito corto e svolazzante nonostante le temperature non più estive; il signore anziano già a passeggio con il cane, forse vittima di una notte insonne; il gruppetto di studenti un po’ ubriachi che, barcollando, tentano di tornare a casa e mi passano di fianco ridacchiando dei miei capelli un po’ arruffati e della stanchezza che ancora mi si legge in viso.
jena-torreOrmai ho passato il ponte di Westbahnhof da un bel po’, sono scesa lungo Westbahnhofstraße e mi concedo una piccola pausa, attendendo che il semaforo diventi verde. Un paio di macchine non aspettano il via libera e sfrecciano nella direzione opposta, incuranti del clacson – e probabilmente delle maledizioni – degli altri automobilisti. Un autobus mi passa di fianco, sollevando un venticello fresco che mi fa ringraziare la santa previdenza con cui mi sono armata di una sciarpa di cotone. Finalmente scatta il verde. Canticchiando “Whole 9 Yards” attraverso la strada e supero il Theaterhaus, sorridendo mentre il ricordo dell’ultimo concerto che ho visto durante la Kulturarena mi ritorna in mente. Oltrepasso la posta, svolto a sinistra e la vedo: la Jentower, ossia la torre di Jena. Quella stessa torre che qualcuno chiama ancora “pene jenense” ma che, ogni volta che torno da un viaggio, mi accoglie e mi fa sentire a casa. Lo stesso edificio che – oltre ad ospitare uffici, ristoranti e una palestra che mi ha vista provare a fare zumba dopo anni di pausa da qualsiasi attività fisica – viene illuminato ogni volta che organizzano qualche festival e le cui finestre riflettono le luci degli edifici circostanti. Svolto ancora una volta, costeggiando un Döner-Laden già aperto e relativamente pieno, prima di immettermi nella piccola stradina che ospita la panetteria dove lavoro e aspettare la mia collega davanti all’ingresso. Avendo lei le chiavi, occorre attendere ancora un paio di minuti.

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Respiro. Chiudo gli occhi. Li riapro. Sorrido.

Jena è casa. Anzi, a ben vedere, Jena è Casa, con la lettera maiuscola. Questa piccola cittadina con le sue luci, i suoi colori, quei rumori che ormai nemmeno mi stupiscono più e i suoi abitanti così diversi eppure spesso più simili di quanto una prima occhiata non farebbe pensare, mi ha accolta tre anni e nove mesi fa e non mi ha mai fatta sentire diversa, straniera, alienata. Questo piccolo centro che qualcuno definirebbe buco ma che io adoro, con le sue stradine spesso un po’ impervie ma paradossalmente piene di ciclisti di tutte le età, mi ha offerto una nuova possibilità, mi ha avviata verso un nuovo cammino, mi ha aperto porte che altrimenti non avrei nemmeno considerato.
Con i suoi pregi, i suoi difetti e quelle piccole particolarità che me la fanno odiare e amare al contempo, Jena è il mio piccolo rifugio e ogni minuto passato a girovagare per queste strade che una volta mi sembravano tutte uguali mi fa sorridere, mi scalda il cuore, mi ricorda cosa vuol dire sentirsi i benvenuti. Anche alle cinque di mattina, avendo dormito – forse – cinque ore e rimpiangendo – nell’ordine – il piumone, il cuscino e il mio peluche a forma di unicorno.

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