Racconto facente parte di una collezione di storie newyorkesi “Diario di un filo di perle” scritte dall’autrice Alessandra G. per la pubblicazione su “Donne che Emigrano all’Estero”.
Un giorno qualsiasi del mese di agosto.
Non mi trovo in una città qualsiasi.
Mi trovo a New York. New York City.
Sono stata trasferita da poco per motivi di lavoro. Ho ricevuto la proposta in Italia, ho valutato, ho accettato.
Adesso sono qui.
Una parentesi più o meno lunga nella mia vita.
Tutto e’ avvenuto in modo piuttosto veloce ed indolore, almeno da un punto di vista burocratico.
Ma non certo dentro di me. Le carte e i documenti si compilano in modo facile ed automatico.
Le persone no. Le esistenze delle persone no. Le persone hanno bisogno di tempo. Per cambiare, per adattarsi all’ambiente, alle altre persone, alle cose, ai nuovi odori, alla polvere e alle stanze che , almeno inizialmente, non hanno ne’ i loro sapori ne’ il loro colori.
La mia compagnia mi ha trovato un alloggio temporaneo in Upper East Side, in attesa che io possa trovarmi un appartamento.
Tutti mi dicono che dove abito io adesso e’ una delle zone migliori della città. Sicura, sofisticata al punto giusto, pulita, perfetta. Cosi’ si dice. Ma io non lo so, perché non so nulla di New York. Nulla.
Ho deciso di uscire. Devo uscire da questa stanza che non sa di niente. Perché non e’ mia, non mi appartiene ancora. Ho cercato di distendermi a letto, ho cercato di sporcare le lenzuola, ho cercato di cucinare con il basilico e il pomodoro, ma non e’ servito a nulla. Sto sempre dentro una stanza che non e’ la mia, in attesa di trovare uno spazio solo mio. Tutto mio. Con il mio odore e con i miei occhi e con i miei capelli.
Esco, e vengo risucchiata. Cammino veloce e non so perché. Devo solo andare a fare una passeggiata, non devo andare a lavorare. Perche’ sto camminando cosi’ veloce?
Mi sento un po’ spezzata. Passi rapidi e frenetici che sono completamente staccati dalla mia anima, che scorre invece lenta e riflessiva.
La gente mi urta. Non si accorge nessuno di me. In questa citta’ rischi di perderti, non in senso fisico, anzi e’ piuttosto facile orientarsi, ma rischi di perdere pezzi di te, rischi di perdere anche un po’ di cuore, forse.
Devo essere più forte, ecco tutto, devo tenermi il mio cuore stretto, cosi’ assorbirò tutte le sensazioni e le faro’ mie. Questo devo fare.
Per non perdermi. Per non essere solo un lavoro. O una banconota da un dollaro. O un conto in banca. Ho deciso che prima di tutto voglio essere una persona.
E’ buffo. Mi rendo conto che in questa città non ho visto molte persone anziane. Vedo soprattutto uomini in giacca e cravatta e auricolare, ragazzini che ascoltano musica con i-pod hi-tech e sofisticati, donne griffate dalla testa ai piedi, gli Asiatici con i loro pantaloni con le pinces e le teen-agers di colore con le loro unghie lunghissime e colorate e, ancora, i Messicani e gli Ispanici, con la loro pelle olivastra ed i loro occhi scuri.
Questo vedo.
Eppure questi giovani in giacca e cravatta, questi ragazzini con gli zainetti, queste donne benestanti, avranno pure dei padri, delle madri, dei nonni.
Mi immagino persone coi capelli bianchi, chiuse nei loro mini appartamenti, sospesi tra un passato troppo distante per essere ricordato ed un futuro troppo vicino per essere metabolizzato.
Entro in metropolitana. Non mi siedo. Eppure ci sono posti liberi. Rimango aggrappata. A che cosa non so.
Potrei essere ovunque in questo momento, perché tanto non mi sento in nessun posto.
Ancora persone. E gente. Tanta gente.
Sento mani e borse e giacche e capelli che mi sfiorano.
Potrei essere chiunque. Anche un animaletto, un uccello, un topo in fuga, un gatto che fa le fusa, un cane che abbaia, una donna che piange.
In questo momento ho solo voglia di bere latte e cacao. Come quando ero bambina. Ho voglia di sentire il profumo del latte e del cacao. Due sapori che si mescolano insieme.
Non e’ facile preparare un latte e cacao ben fatto. Bisogna dosare l’uno e l’altro ingrediente in maniera proporzionata, creare il colore giusto, ne’ troppo bianco, ne’ troppo nero, non zuccherare troppo, lasciare una punta di amaro.
C’e’ sempre un po’ di amaro nella vita.
A volte capita che il cacao non si sciolga del tutto, rimane sempre qualche granello che nuota libero sulla superficie schiumosa del latte. I resti di cacao non sciolto sono i migliori, da inghiottire subito, li senti scendere, un po’ secchi e pastosi, ti rimangono nella gola e nel cuore.
Mentre cammino mi accorgo che i miei passi procedono piu’ lenti adesso.
Posso sentire il latte dentro di me, lo sento raggiungere il mio stomaco, lo sento scorrere nelle mie vene e penetrare nei miei pensieri.
Fra i tanti palazzi, più o meno alt, scorgo l’entrata maestosa di un supermercato.. Sicuramente potrò comprare del latte e del cacao.
E giocare a fare la nonna.
All’interno mi perdo presto fra i mille scaffali e i mille prodotti esposti.
Mi sento sola.
E anche un po’ limitata, a dire la verità. Non e’ possibile che in questo paese dei balocchi non si riesca a trovare una bustina normale di cacao normale da aggiungere ad un latte altrettanto normale.
Benvenuti negli Stati Uniti D’America. C’e di tutto. C’e troppo.
Cosi’ tanto che non riesco a decidermi. Mi viene da piangere.
Devo avere una faccia disperata in questo istante. Una faccia che non e’ la mia: un’espressione infelice e preoccupata e due occhi senza colore.
Una signora si avvicina e mi parla. Probabilmente si e’ accorta che ho bisogno di aiuto. E’ una donna anziana, una vecchia signora, una signora vecchia.
Una persona.
“ Tesoro, quello e’ il migliore. Ne’ troppo dolce, ne’ troppo amaro, se lo abbini ad un latte parzialmente scremato, la combinazione e’ garantita. Non potrai piu’ farne a meno, vedrai”- mi parla lenta e soffice, mentre mi indica una scatola rossa di cacao solubile“.
Forse non e’ un caso che tesoro si dica “sweety” in inglese, che vuol dire anche “dolcezza” e “ persona dolce”.
Sono io, sono io che sto cercando qualcosa di dolce quel giorno, qualcosa di dolce da bere, ma anche qualcosa di dolce da toccare, qualcosa di dolce da tenere dentro di me.
Mentre mi avvicino allo scaffale per afferrare la scatola di cacao, mi soffermo per osservare meglio questa vecchietta.
Mi attraggono i suoi capelli corti, pieni e consistenti, bianchi e puliti, i suoi due occhi scuri e allungati, gli occhiali tenuti in mano con eleganza, il filo di rossetto rosso sulle labbra sfuocate.
Ricambio con un sorriso gentile, un sorriso di gratitudine, e afferro la scatola rossa.
La signora stringe le mie mani fra le sue. Ha due mani da persona vecchia, come e’ giusto che sia. Sembrano ridere in faccia a tutti i cosmetici sbiancanti ed anti-macchia che riempiono degli scaffali attigui.
Le sue mani rugose sono lisce al tempo stesso, sembrano non avere nessun peso, tanto sono leggere. Sono due piume che si incontrano nell’aria.
Le sue unghie sono particolarmente curate, dipinte con uno smalto perlato che ha il colore del ricordo.
Mentre la signora si muove per stringermi la mano, le scende un filo di perle bianche e lucide dalla manica della camicetta rosa confetto.
Posso sentire un pezzo del suo mondo e della sua vita, in quel gesto.
Dritto al cuore.
Mi sento salva. Finalmente.
Chi sono
2 Commenti
Alessandra, datti del tempo.
Non cercarti ovunque. Piuttosto apriti con curiosita alle differenze.
Inizia uno sport che non hai mai fatto per esempio.
A me ha aiutato. Cerca quegli angoli della citta dove puoi sentirti tu.
Sei nella parte migliore della citta, si. Ma non vuol dire che e la tua!
Non forzarti.
In bocca al lupo.
Valentina, Sydney.
Ritrovo una New York che ho sentito anche io da turista e sulla quale al ritorno avevo scritto una poesia…
Ma vedrai che non ti perderai!!