Ciao mamma, o forse devo dire nonna?
Sono passati quasi nove mesi, da quando te ne sei andata. Una gravidanza del dolore così ossimorica quanto cinica. Un contrasto tra vita e morte che, diciamocelo, poteva riuscire forse proprio solo a te. A te che di morti facevi la scorpacciata ogni volta che aprivi un libro o accendevi la televisione, con la tua passione per thriller, gialli e cronaca nera. Mi basta chiudere gli occhi per vederti là, seduta sulla tua poltrona blu, con il Kindle in mano e la televisione accesa in sottofondo.
Erano trascorsi otto mesi, invece, il giorno in cui tuo nipote ha fatto il suo ingresso trionfale.
A voler peccare di pignoleria, erano passati otto mesi nove giorni sei ore e una manciata di minuti… Sai, mamma, di quella notte ricordo tutto. Anche che gli ho subito detto: “Tu ti chiami come la tua nonna, quella che non ti ha conosciuto ma che ti farò conoscere.” Ho pianto in silenzio, quella notte, pensando che non lo avresti mai riempito di attenzioni. Che non si sarebbe goduto quei dolci fantastici che avevi imparato a cucinare solo a malattia inoltrata.
Ho riso, invece, ricordandomi di quando mi dicesti: “I vestiti per neonati si comprano sempre un poco più grandi. Altrimenti non li usi niente”. Di fianco a me, infatti, c’era un bambino di due chili e mezzo per il quale avrei dovuto comprare pannolini taglia zero in grandi quantità, altro che tutine 3-6 mesi. Aveva un paio di pantaloncini corti taglia 0-1 mese che gli arrivavano alle caviglie, quando ci dimessero. I primi giorni, davvero, sembrava uno scappato di casa.
A volte, soprattutto all’inizio, ho pensato che questo pargolo ce lo avessi mandato tu, mamma.
Quando l’ostetrica che viene a casa a controllare se stiamo bene ha sottolineato quanto mio figlio sia testardo, poi, ne ho avuto la conferma. Razionalmente so che non è possibile, che ero già incinta quando ci lasciasti. Che queste cose non succedono se non nei libri fantasy. Eppure ho ritrovato tanto della te che ho perso, in questa scimmietta urlatrice che mi ruba il sonno e mi fa venire i capelli bianchi. Testardo, cocciuto, meraviglioso Francesco Giuseppe. Ha addirittura il tuo naso il che, viste le canappie che ci troviamo in famiglia, francamente è un sollievo.
Lo sai che mi ero dimenticata chi fosse Francesco Giuseppe, anzi Franz Joseph? Proprio io che come te, o meglio grazie a te, ho divorato documentari interi sugli eventi storici più disparati. Me lo ha ricordato un’amica, quando le ho comunicato la nascita. A voler proprio essere onesti, noi ci siamo limitati a scegliere un nome a testa. Il primo l’ho scelto io, il secondo lo ha scelto lui. Ne è uscito questo appellativo pomposo e forse un po’ esagerato che, però, calza a pennello. Una scimmietta urlatrice d’alto rango, insomma. Mica male, vero?
Sta aiutando un po’ tutti a superare il dolore del lutto, questo bambino.
Non tappa i buchi inclementi della perdita, quello no. Eppure, a modo proprio, regala propositi nuovi e prospettive diverse. Lo fa con me, vogliosa di raccontargli le avventure e disavventure della sua nonna speciale, di parlargli della mia mamma. Gli racconterò della varicella che ti attaccai ormai venti anni fa e della quale ti rendesti conto mentre eri a fare la spesa al Bennet. Gli parlerò persino alla prima volta in cui ti portai a mangiare il sushi armata di forchetta. Quanto abbiamo riso, quando ingoiasti tutta la pasta wasabi pensando fosse una cremina di verdure…
Persino papà ogni giorno sottolinea quanto sia un “bel bambino con un bel nome”, sai mamma? Ha il nome della sua Franchetta, della persona che ha accudito sino all’ultimo con devozione e un pizzico di pazzia. Ride spesso, al telefono, tuo marito. Ride anche con gli occhi, dopo anni passati a storcere a malapena la bocca.
È difficile, a voler essere onesti, capire dove inizi la gioia e finisca il dolore ormai. Non sono confini netti questi, bensì una linea sfumata dove l’una coesiste con l’altro, tra una poppata mattutina e una lacrima furtiva. È complesso definire il marasma di queste emozioni senza dimenticare nulla per strada. Ci sono rabbia, dolore, amarezza, malinconia, rancore ma anche gioia, sollievo, soddisfazione e quell’amore indefinibile eppure tangibile al contempo. Per citarti, insomma, “È tutto un gran casino”. Quindi, mamma, per farla breve è cambiato tutto ma, in fondo, non è proprio cambiato nulla. È sempre tutto un gran casino anzi, adesso c’è pure un casino in più. Con buona pace dei nomi d’alto rango.