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Un libro che ha segnato la mia vita

di Katia
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Immagine: Hotel Modern, Kamp (gm)

Un libro che ha segnato la mia vita

Ricordo che quando ero bambina i miei genitori tentavano di proteggermi dal conoscere la verità.

Se chiedevo cos’erano i campi di concentramento, mi rispondevano in maniera evasiva che erano una brutta cosa, lasciandomi così a brancolare nel buio con la mia fame di sapere.

Poi, un giorno d’estate – io abitavo in campagna allora e le estati al tempo della prima adolescenza erano,  per me e mia sorella, interminabili – frugando tra i libri che il mio babbo teneva nella sua  biblioteca personale, scovo il libro di Primo Levi: Se questo è un uomo

Inizio a sfogliarlo, comincio a leggerlo ma, soprattutto, guardo le fotografie.

Devo ammettere che, di primo acchito, alcune foto non le capivo. Non riconoscevo di cosa fossero fatte le montagne composte da arti ortopedici rimossi agli ebrei in entrata nei campi di sterminio. Ero solo molto incuriosita.

Dentro quel libro intuivo esserci qualcosa di cui ero all’oscuro.

D’un tratto, vengo attraversata da una luce improvvisa e la mia mente comprende.

Inizia per me, in quel preciso momento, un vagare catatonico da una stanza all’altra della casa in preda a un misto di sentimenti che non sapevo, all’epoca, definire. Direi una miscela di stupore, orrore, disgusto, dispiacere.

Ma, più di ogni altra cosa, un sentimento di incredulità. Il tutto accompagnato da un forte mal di stomaco.

Ricordo che non dormii per un paio di notti.

La scoperta fu tremenda e quella fu la prima volta che mi trovai di fronte agli orrori della storia recente.

Non ho mai trovato  le parole adatte per descrivere l’esperienza che feci quell’estate.

Ho sempre percepito uno strano senso di debito nei confronti di chi ha vissuto la Shoah ed anche ora, mentre scrivo, mi è difficile tenere a freno le emozioni.

Forse è a causa del libro di Primo Levi che, anni dopo, quando fui costretta ad indossare un busto ortopedico per la scoliosi galoppante, mi trovai ad urlare come una matta, a piangere ed a vivere quella gabbia toracica come un punto di non ritorno (come in effetti fu, ma questa è un’altra storia).

Credo che il mio busto mi ricordasse le montagne di busti ortopedici assieme a piedi e gambe di legno, che avevo visto in quelle foto.

Di sicuro provavo un’empatia profonda con le persone che avevano vissuto quella terribile storia decenni e decenni prima. Fatto sta che, da allora, non ho mai dimenticato.

Sebbene non abbia mai più voluto aprire quel libro e lo abbia relegato nello scaffale più remoto di qualsiasi libreria delle case dove ho viswsuto, quelle immagini sono impresse nella mia mente e me le sto portando dentro da oltre  40 anni.


L’immagine di copertina, Kamp degli Hotel Modern al Festival di Spoleto (2015), articolo di Maria Anna Mariani, è stata presa dal sito web LE PAROLE E LE COSE Letteratura e realtà

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1 Commento

Elisa 29/10/2018 - 13:52

Non ho mai amato la storia ma questo argomento a scuola mi appassoniava terribilmente

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