Londra e io, ventidue anni dopo
Il 3 maggio 1998 era un bank holiday weekend: un fine settimana con il lunedì festivo.
Era anche il giorno in cui arrivai a Londra.
Avevo, in tasca, l’accordo per un periodo di prova di tre mesi presso l’ufficio londinese della società per la quale lavoravo a Milano; una camera a Bayswater, nel cuore della città, pagata dalla società; un’amica italiana, che era anche collega di lavoro.
Avevo lasciato tanto alle spalle. I miei genitori, ai quali avevo promesso che sarei tornata dopo tre mesi; mio fratello; il mio piccolo appartamento, arredato su misura; la mia macchina, una Panda bianca; le mie amiche; la mia gatta, l’unica per la quale piansi al momento dei saluti.
Avevo, però, finalmente spiccato il volo.
Avrei dovuto farlo prima, perché l’Italia mi è sempre andata stretta. Il sogno era l’America. A 21 anni, ospite durante le vacanze estive una cugina di mio papà nella bellissima California, vicino a Los Angeles, non ebbi il coraggio di seguire il consiglio del marito e cercarmi un’occupazione, scegliendo di rientrare a casa per completare gli studi universitari. Una scelta che rimpiansi a lungo.
“Se trovo lavoro, parto”, mi dicevo. Ma l’impiego in America, nonostante i tentativi, non si materializzò. Quando l’occasione per Londra si presentò, non me la lasciai sfuggire.
Alcuni dettagli di quel giorno sono vividi nella memoria.
I colori. Il giallo canarino dei bagagli, uno dei primi modelli a rotelle, pesantissimi e pieni di vestiti. Un colore, il loro, inusuale e scelto apposta per distinguerli dagli altri, e perché io sono così, amo le cose insolite, quirky. L’azzurro del cielo in una giornata di sole, quelle che rendono Londra ancora più bella. Il rosso degli autobus.
I rumori. Della metropolitana. Delle voci, in un misto di lingue e accenti. Del traffico.
Le sensazioni. Il calore della giornata primaverile. La libertà che si respira nell’aria. La quieta frenesia di una città in movimento. Il sentirsi al centro del mondo e di essere nel posto giusto.
Londra é casa mia.
Mi sembra ancora una cosa incredibile, nonostante sia passato così tanto tempo. In questi anni, la mia storia personale si é intrecciata con quella della città.
Qui, sono nati i miei figli: la grande nel 2001, subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, il piccolo nel 2007; mi sono sposata ed ho divorziato; ho comprato case e le ho perse, ritrovandomi in affitto; ho fatto carriera.
Qui, ce l’ho fatta da sola.
In questa città sono rinata, dopo l’operazione che mi ha cambiato la vita.
Qui, abbiamo avuto l’euforia economica del governo di Blair; gli attacchi terroristici del 2005; il collasso bancario del 2008; le Olimpiadi del 2012; la lenta ripresa economica; i matrimoni dei reali e le nascite dei principini; Brexit; Megxit (l’abbandono della famiglia reale da parte del principe Harry e famiglia).
Londra, negli anni, ha cambiato pelle.
L’immigrazione, in massa dai paesi africani durante il governo laburista fine anni 90/inizio 2000 e successivamente dall’Europa, particolarmente dalla Polonia, ne ha mutato la demografia e le abitudini, con negozi, prodotti e ristoranti per tutti i gusti. La necessità di dare un alloggio e muovere un numero sempre crescente di cittadini ha portato allo sviluppo a macchia d’olio di aree un tempo deprivate, al potenziamento dei trasporti pubblici, allo sviluppo di Uber.
È tante cose: contrasto tra ricchezza e povertà, tra l’opulenza del West End e la modestia dell’East End; divisa dal Tamigi tra north of the river e south of the river; le luci dei teatri e la ricchezza artistica; quartiere finanziario; cacofonia di suoni; ragazzini che muoiono nelle guerre di quartiere; prezzi esorbitanti; la gente sempre di corsa.
La ami, come me, o la odi.
Il 3 maggio 2020 Londra è una città diversa, messa in ginocchio, per ora, da un nemico invisibile, subdolo e mortale che ha colpito quasi tutto il mondo: il Covid-19.
Siamo in lockdown, una misura probabilmente presa in ritardo dal governo inglese guidato da un Primo Ministro, Boris Johnson, forte sostenitore della libertà individuale, che ha pagato in prima persona l’aver sottovalutato la pericolosità di questo avversario.
La città è semi-deserta. Possiamo uscire, al momento, solo per fare la spesa, portare il cane a passeggio, chi ce l’ha, e fare un po’ di attività fisica, un’ora al giorno. Non c’è l’obbligo di indossare una mascherina né quello di avere un documento, come in Italia, che attesti che possiamo uscire. Il governo conta sulla responsabilità dei cittadini che, per la maggior parte, hanno seguito queste regole draconiane. Ci sono, ovviamente, i furbi, che sfidano qualunque imposizione, regolarmente denunciati sui giornali e denominati Covidiots.
La cosa più assurda vissuta finora è stato l’assalto iniziale ai supermercati.
Gli stockpilers, ovvero chi ha comprato più di quanto avesse bisogno, hanno lasciato gli scaffali vuoti. Siamo abituati all’abbondanza, alla consegna della spesa a casa, ai negozi sempre aperti. Improvvisamente, tutto questo è venuto a mancare. Disinfettanti, saponi per le mani, carta igienica: nei primi giorni del lockdown non se ne trovava. Ci sono state scene poco edificanti di persone che sono venute alle mani nei negozi. Incredibile, in una metropoli, nel 2020.
A distanza di qualche settimana le cose si sono calmate, abbiamo raggiunto una nuova normalità: ci siamo abituati a stare in casa, a fare la fila per il supermercato.
Gli scaffali sono di nuovo pieni, la carta igienica non é più un miraggio anche se ora non si trovano farina e lievito: i londinesi si sono scoperti tutti panificatori e mastri dolcieri! In realtà la prima abbonda ma i produttori non riescono a farla arrivare al pubblico perchè manca il personale nelle società addette all’imballaggio.
Lo ammetto: all’inizio anche io avevo sottovalutato questo nemico per poi farmi prendere dal panico, dall’acquisto frenetico di quanto disponibile e dall’ossessione per la carta igienica.
Ho imparato a conviverci.
Ho cambiato modo in cui faccio shopping. Mi sono attrezzata con un freezer supplementare e, non potendo più usufruire della consegna a domicilio per la mancanza di disponibilità dovuta alla grande richiesta, faccio una grossa spesa una volta ogni due o tre settimane. Ogni tanto faccio piccoli acquisti di verdura e pane, secondo le necessità o il bisogno di uscire, di cui parlo in seguito.
Lavoro da casa.
Mi sento fortunata, rispetto a milioni che hanno perso l’occupazione e lo stipendio: la nostra compagnia è solida.
Per mantenere un senso di normalità, dal lunedì al venerdì mi vesto e trucco come se dovessi andare in ufficio anche se la mia postazione lavorativa è il tavolo della cucina. Questo stratagemma mi permette di dividere i due mondi, il professionale dal personale.
Ho scoperto che mi manca il contatto con la gente: una rivelazione per un orso come me, che amo stare da sola. Dotata di un forte il senso di indipendenza, insofferente a qualsiasi tipo di restrizione, soffro nell’essere confinata in casa: lo so, è necessario e non sono la sola. Quando proprio non ne posso più, vado al supermercato o in posta a spedire le cose vendute su eBay. È strano dover evitare la gente; vedere le strade semi deserte e le macchine parcheggiate sempre nello stesso posto; fare la fila per entrare nei negozi.
Ho notato che i miei figli hanno reagito meglio di me.
Nati in una società tecnologica, la connessione a internet è sufficiente a renderli contenti. Con la chiusura delle scuole, si trovano in una vacanza forzata. Mia figlia, all’ultimo anno della scuola secondaria, non sosterrà esami perché sono stati cancellati. I voti, importanti per l’accesso all’università a settembre, verranno calcolati in base al lavoro svolto durante l’anno e alle prove sostenute appena prima della chiusura. Mio figlio, al primo anno delle superiori, riceve i compiti tramite la app dell’istituto scolastico; calciatore in erba, sente la mancanza degli allenamenti e delle partite.
Sono grata per quello che abbiamo e, soprattutto, per la nostra salute.
È il 3 maggio 2020: tutto quello che è stato finora cambierà per sempre.
Quello che rimarrà saremo io, Londra e la nostra storia futura, tutta da scrivere.
Chi sono
2 Commenti
Ciao, sono Vittoria. Italiana, 28 anni.
Mi sono riconosciuta tantissimo nella tua storia, mi sono trasferita per lavoro qui a Londra dal settembre 2017 abbandonando famiglia amore amici e partendo da sola per una nuova avventura. Ho trovato casa a bayswater e lavoro a bond street. Mi hai fatto ripercorrere dei forti momenti di qualche anno fa, thanks for sharing. It was wonderful x
V
Ciao Vittoria,
I am pleased to hear! Magari ci vediamo quando si potrà!
Ciao
Elena