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Maternità canaglia: 16+6

Confessioni a un bambino non ancora nato

di Samanta - Jena DE
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Ci vengono raccontate tante cose, riguardo alla maternità. Ormai ovunque, veniamo sommersi da video pieni di allegria, di gioia, di emozione. Vestitini con i motivi di Walt Disney, carillon vezzosi e arcobaleni come se piovesse. Pancioni rotondi, colori pastello, palloncini e mobili in legno chiaro: cosa c’è di più bello? A guardare la situazione dall’esterno, davvero, sembra non ci sia nulla di altrettanto speciale.

Eppure, a volte, le cose non vanno come vorremmo. Persino in gravidanza.

“Certe cose capitano quando devono”. Quante volte abbiamo sentito questa piccola saggezza di paese, sventolataci davanti come una bandierina sfrontata? Parlare di fertilità, per molte donne così come per parte del personale sanitario, è difficile. Discutere della propria volontà, o meno, di avere un figlio è, a tratti, persino rischioso. Dal datore di lavoro che storce il naso, passando per il padrone di casa che affitta solo a coppie senza bimbi. Questo, ovviamente, non accade ovunque. Ciononostante, accade ancora.

Io ho scoperto di essere incinta un mercoledì, dopo il lavoro. Soffrendo di PCOS, infatti, monitorare cicli e ovulazioni faceva parte del mio quotidiano. Avevo appoggiato il mio Clearblue sul bordo della vasca da bagno. Mi ero fatta un caffé e, quando ho visto il risultato, a momenti ci resto secca. Con una gravidanza, davvero, non avevo fatto i conti. La mia ginecologa, vista la mia anamnesi, mi aveva persino consigliato una clinica per la fertilità. Io, per conto mio, avevo deciso di aspettare un paio di mesi. Questo, ovviamente, nella speranza che le cose a lavoro continuassero ad andare bene. Non avrei mai voluto mettere al mondo un figlio, infatti, senza avere nulla di concreto da offrirgli.

maternità-mani-famigliaLa gioia e il dolore si mescolano.

Dopo aver ricevuto una conferma dalla mia ginecologa e uno stop dal mio datore di lavoro, partii per l’Italia. Il mio compagno aveva ottenuto le tanto agognate ferie, io non avevo nulla da fare ed era passato quasi un anno dalla mia ultima visita. Avevamo organizzato tutto, con la speranza di immortalare il momento con un video da custodire. Le cose, anche in questo caso, presero un po’ la piega che volevano. Nella fretta, non riuscimmo a far nessun video. Mio padre era persino girato di spalle, intento a pulire dei gamberetti. L’evidente barriera linguistica, poi, contribuì solo alla comicità casalinga della situazione.

Il giorno dopo, tirammo giù il mio lettino a sbarre dalla soffitta. Iniziammo a restaurarlo, recuperammo materiali e colore. Fu uno sforzo comune, buffo e impacciato ma allo stesso tempo tenero nel suo essere imperfetto. Quel lettino in legno massiccio è stato l’ultimo regalo di mia madre, l’ultimo pensiero di quel cuore enorme che a breve avrebbe smesso di battere.

Nessuno ci aveva preparato. Anche a volerlo, nessuno sarebbe riuscito a prepararci. A nemmeno sei settimane, mi trovai a carponi sul pavimento del salotto, al telefono con il 118. Con le orecchie che fischiavano e le braccia che dolevano, cercavo di non pensarci. Cercavo disperatamente di non riflettere sul fatto quelli sarebbero stati gli ultimi momenti con mia madre. Eppure, in qualche modo, lo sapevo.

Una vita se ne era andata, mentre un’altra poco a poco si faceva spazio.

Non so come ho fatto a non perdere questo bambino. Onestamente, davvero non so come sia possibile. Il dolore, le lacrime, l’insonnia, il senso di vuoto avrebbero messo a dura prova chiunque. Il fatto quel paio di cellule ce l’abbiano fatta, forse, ha molto da dire sulla testardaggine “di famiglia”. Chi lo sa quali sorprese mi porterà ancora, quest’avventura chiamata maternità?
Nei giorni successivi, in ogni caso, ho funzionato. Ho telefonato, scritto, pagato, accompagnato mio padre in questo o quell’ufficio. Sono andata avanti perché dovevo, ho sistemato quello che potevo perché non c’era altro da fare. Ho spostato appuntamenti, scritto email, pianificato i mesi successivi. Ligia al dovere, poi, ho cercato di mettere pezze qua e là.

maternità-fiori-campo“Ma te la stai godendo, questa maternità?”. No, non lo sto facendo. Non mi sto godendo proprio niente. Penso spesso a quello che ho perso, che ho dovuto lasciare, che mi è stato tolto. Al mio lavoro che mi manca davvero tanto ma che, nella mia attuale situazione, sarebbe troppo pericoloso. Rifletto su quanto ci sia da fare mentre, stremata, dimentico quello che ho già portato a compimento. Mi concentro, mio malgrado, sulle perdite perché le vittorie non mi sembrano per nulla importanti.

A ogni visita, pur non avendo avuto chissà che problemi sino a ora, chiedo sempre: “C’è un battito?”.

È più forte di me. Da questa maternità, ormai, mi aspetto solo perdite. Contemplo vuoti e, da brava pessimista, attendo il momento in cui andrà tutto storto. Mi preparo mentalmente al peggior risultato di sempre e so che non ne uscirò vittoriosa. Compilo fogli, chiamo ostetriche e pediatri mentre il mio mondo, ormai, è cenere. Mentirei se dicessi che sto bene, mi lamenterei forse un po’ a sproposito dicendo che sto sempre male. È un gioco di equilibri che non sono ancora riuscita a padroneggiare, questo qui. Si tratta di un miscellanea di sensazioni che, prese tutte insieme, non hanno nemmeno chissà che senso.

È una maternità un po’ canaglia, la mia. Una meraviglia che non sento ancora mia, un senso di colpa latente. È un colpo all’anima, come canterebbe a squarciagola mia mamma. Magari pulendo fagiolini dalla propria sedia in ferro battuto. E mentre i miei, di fagiolini, scongelano di fianco al lavello, non riesco a smettere di pensare a quest’altra canzone. Al fatto che, forse forse, un po’ di ragione Venditti ce l’aveva pure. O almeno spero.

Certi amori non finiscono. Fanno giri immensi e poi ritornano. Amori indivisibili, indissolubili, inseparabili.

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