Il giorno in cui sono partita per vivere in Marocco uno dei paletti che ho messo è stato: “Il Natale ad Essaouira mai!”
In primis perché il Natale deve essere in famiglia, poi perché in Marocco il 25 dicembre rischia di essere una giornata soleggiata e calda, senza luci, abeti addobbati, Babbi Natale che si arrampicano sui balconi, insomma senza atmosfera natalizia.
Il Natale è il mio paesello, il freddo, la nebbia, sbrinare la macchina al mattino con le mani congelate, le luci del centro, le corse per i regali, il panettone e i cappelletti. È vestirsi talmente tanto da lasciare fuori solo gli occhi. È girare per casa con la coperta come Linus.
Natale è correre fuori al primo fiocco di neve, aspettare che si formi un bel tappeto soffice e tuffarcisi con la rincorsa. È tirare fuori la slitta che ci aveva fatto il nonno quando eravamo bambini, o in assenza di quella i sacchi neri per la spazzatura per andare a scivolare sulla neve dietro casa. Natale è mangiare la neve fresca e fare il pupazzo. È fare l’albero con le lucine bianche. È fare un pensierino alle persone che ami e sclerare il giorno della vigilia perché mancano ancora due o tre regali e non sai dove sbattere la testa. È una sera con gli amici più cari passata a scambiarsi auguri e promesse. Natale è fare il bilancio dell’anno passato e buoni propositi (mai realizzati) per quello futuro. Natale è il profumo delle bucce d’arancia sulla stufa. È mia mamma che addobba la casa per settimane facendola sembrare la vera dimora di Babbo Natale.
È preparare gustosi manicaretti per la vigilia, apparecchiare la tavola con le cose più belle e preziose, cenare con mamma papà e Alberto, aprire una bottiglia di champagne per accompagnare lo scambio di regali che prevede da anni anche un biglietto della lotteria a testa perché “non si sa mai” e parlare per la successiva mezz’ora di quello che faremmo con la vincita in tasca.
Natale per me è tutto questo e non potrei mai privarmene, me è soprattutto Santo Stefano in cui la numerosissima famiglia materna si riunisce come da tradizione. Uno dei ricordi più vividi delle riunioni di famiglia del 26 dicembre è la nonna che dopo pranzo era solita alzarsi in piedi ed iniziare a cantare tutto il suo repertorio che partiva dall’ Ave Maria di Schubert, passando per il Và Pensiero e finiva con le canzoni degli alpini.
Siamo quasi cinquanta persone tra zii, cugini e figli dei cugini. Visto che da quando non c’è più la nonna ci si riunisce a casa dei miei genitori vedo l’ansia dei preparativi crescere di giorno in giorno. Si inizia la settimana prima di Natale quando le temibili “sorelle Ferrari” si ritrovano per fare circa tremila cappelletti. Qualche giorno prima a casa mia si inizia a spostare i tavoli, mettere a posto la taverna, addobbare, pulire e agitarsi.
Il pomeriggio di Natale apparecchiamo i tavoli. Se penso che a casa mia ho sei piatti e bicchieri spaiati ogni volta mi stupisco che mia madre abbia, piatti, sottopiatti, fondine, bicchieri da acqua e da vino per cinquanta persone. Mio fratello, il forzuto di casa, porta tutto al piano di sotto con delle ceste giganti e pesantissime. Io e mamma apparecchiamo. Mio padre di solito a questo punto della giornata scappa via. Lo ritroviamo il mattino seguente a fare la cosa che più gli piace: affettare i salumi. I miei nonni hanno avuto una trattoria per tanti anni quindi mia madre e le zie Ferrari sono tutte cuoche sopraffine.
Il menù di Santo Stefano è il seguente: affettati misti di ogni sorta (in provincia di Parma non possono mancare) ed in quantitativi inimmaginabili. L’insalata russa e di cavolfiore della zia Giuliana con cui si fa un primo passetto verso il Paradiso. Cappelletti (le zie ne calcolano cinquanta a testa) che vengono spazzolati senza lasciare alcuna traccia. Per secondo gli arrosti e i bolliti della zia Ave che, come dico da anni, dovrebbero far parte del patrimonio dell’Unesco. Al primo boccone del ripieno dell’anatra arrosto di solito vedo San Pietro che apre il cancello e mi chiede di entrare.
Il tutto viene annaffiato da non quantificabili litri di lambrusco. Per finire i dolci. Torte di ogni sorta, il pandoro con lo zabaione di mia mamma che se i carabinieri ti fanno il palloncino due giorno dopo trovano ancora del Marsala, per finire con il mitico Riccio, un concentrato di burro, zucchero, caffè e liquore. A quel punto i maschi over 60 svengono, chi davanti alla tv, chi sul divano, qualcuno addirittura in macchina. I bambini corrono fuori a smaltire. Il resto della famiglia si perde in chiacchiere senza più riuscire a seguire un filo logico.
Quando uno di noi cugini trova un nuovo fidanzato, il pranzo di Santo Stefano in famiglia diventa la prova del nove. Se resiste e partecipa ha vinto. Di solito rimangono in silenzio per la prima mezz’ora poi alla quarta bottiglia di Lambrusco iniziano a rilassarsi e vederci quasi come una famiglia normale. Una volta un’amico olandese di mia cugina dopo averci osservati in silenzio per ore disse solamente: “Sembrate un film di Fellini”. Non credo fosse un complimento.
Quest anno purtroppo ci sarà un posto vuoto, un’assenza incolmabile che renderà il Natale molto triste ma la famiglia ancora più unita perché è proprio nei momenti difficili che il Natale diventa il momento per stare insieme, aiutarsi, sorreggersi e volersi ancora più bene.
Chi sono
2 Commenti
Bellissimo racconto è bellissima famiglia
Bellissimo, grazie per aver condiviso questi bei momenti, mi hai fatto commuovere. Un abbraccio!