Spanish Harlem è un quartiere toccasana per ritemprare l’autostima.
Ad ogni angolo delle streets affiora qualche giovane latino o qualche sosia dei Buena Vista Social Club che ti accolgono con un sorriso bianco e pieno, e che ti accompagnano lungo un percorso piu’ o meno lungo con le loro espressioni gioiose e colorite come “ Mama Sita”, “God bless you”, “How are you gorgeous?”.
Se sei anche tu dell’ umore giusto, puoi riuscire a rimediare per strada qualche appuntamento galante per il giorno dopo o, quanto meno, a comunicare il tuo numero di cellulare. Quello giusto naturalmente. Perché non vuoi dare un numero di telefono fasullo alla buona gente.
Non sono dell’umore giusto, oggi.
Mi sento troppo confusa per perdermi dietro ad una goliardica piece amorosa.
Entro nel caffè messicano per comprarmi un ice-coffee gigantesco e un pezzo di pan de queso, il mio preferito.
Sono affamata. La confusione mi crea sempre un buco nello stomaco che devo subito riempire.
Mi avvio in direzione Museo Del Barrio, custode ed erede affidabile della cultura latino- ispanica.
Passo attraverso il campetto da basket con i murales.
Un campo da pallacanestro vero, fresco, fatto di vittorie, di sconfitte, e anche di qualche scontro per la supremazia del territorio.
Porta con sé lo stesso sapore vivace ed eclettico delle diverse culture ed etnie che a Spanish Harlem si sono fuse fra loro, ovvero di quella americana bianca e caucasica, di quella autoctona, di quella latina, a prevalenza domenicana e portoricana, e di quella afro- americana.
Spanish Harlem è la versione urban street e metropolitana di un arcipelago che si posa sulle acque caraibiche.
Il campetto da basket è un’ isola che fa parte di questo arcipelago cosmopolita.
A quest’ora non c’è nessuno che si stia cimentando con il canestro, o che stia anche solo palleggiando.
E’ sabato ma, probabilmente, la partita inizierà più tardi.
Poco male.
Posso godermi i graffiti in tutta tranquillità, senza lasciarmi distrarre da presunti giocatori di bronzo.
I molteplici colori dei murales riflettono i molteplici caratteri della variegata comunità misto ispanica.
Gli artisti di graffiti sono i creatori di una poesia urbana ai limiti della legalità .
Non ho mai assistito al processo creativo degli “sprayers”.
Sono arrivata sempre ad opera terminata e, con mio profondo rammarico, riconosco che mi sono persa e mi sto perdendo tuttora i loro gesti plastici, fisici, il loro supremo potere di plasmatori della materia, la loro capacità tecnica di dare vita a immagini tridimensionali e a colori pastosi.
Peccato perdermi l’attimo in cui la sostanza gassosa delle bombolette spray raggiunge la superficie dura, e si trasforma in immagine pura, in raffigurazione dai nitidi contorni, in disegno con diversi livelli di profondità.
Dall’idea all’opera d’arte.
Dall’etereo al concreto.
Dal gassoso al solido.
Dalla concentrazione del contenuto alla dispersione di forme e sfumature.
Dallo statico al movimento.
Affascinante.
E tutto questo io lo perdo.
E allo stesso modo sto perdendo il processo evolutivo del mio cuore.
Sulla parete muraria dove è appeso il canestro sono raffigurati tre bambini che sembrano veri, tanto sono curati nei particolari dei loro corpicini paffuti e dei loro visi espressivi.
Mi avvicino al muro per toccarli, per accarezzarli, potrei pizzicare le loro guance adesso.
Sento il loro profumo di bambini.
I bambini sanno di bambini. Odorano di latte, di borotalco, di zucchero filato e di mela grattugiata.
Ho voglia di stringere in braccio mio nipote Leonardo. Lo sento così distante da me in questo momento.
Appoggio il mio corpo sui mattoni dell’opera d’arte e sfioro con le mie dita il collo, la bocca, il naso e i capelli di questi bambini.
Per un momento entrano nella mia vita e ne fanno parte.
Riesco a udire le loro risate infantili, le loro grida viziate, i loro gorgheggi.
Non sono più fatti di pietra, sono piccoli esseri in 3D, morbidi e soffici come pupazzetti di neve.
Starei appoggiata a quel muro per tutta la vita. Se potessi.
Racconto facente parte di una collezione di storie autobiografiche newyorkesi “Diario di un filo di perle” scritte dall’autrice Alessandra G. e concesse per la pubblicazione sul web a “Donne che Emigrano all’Estero”.
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