Non mi piace parlare di me. Non ho mai amato raccontare la mia vita.
Forse perché non si tratta di una vita da copertina. Credo di essere una donna come tante. Perché raccontare la vita di una donna come tante? O forse non è così. Sono sempre stata la ribelle. L’incompresa. Quando ero piccola, i miei compagni mi additavano come quella che non faceva altro che passare il suo tempo sui libri. I miei compagni di scuola, me li ricordo bene.
Il fatto è questo: diversi da cosa?
Esiste veramente un modello a cui conformarsi? Qualsiasi deviazione da questo ipotetico modello diventa sofferenza, alienazione, gelo. E questo vale soprattutto per noi donne. Mamma? No. Sposata? No. E allora non potrà mai rappresentarci, signorina, è pregata di uscire. Signorina? Mi chiedo perché non esista il corrispettivo maschile: signorino, sì, esatto.
Il motivo principale che mi ha spinta a cercare me stessa altrove, è proprio questo.
Il sistema tradizionale di valori, in Italia, non mi ha mai rappresentata. Ho trovato me stessa fuori da quei rigidi e asettici confini.
Ma poi: perché dobbiamo ritrovarci? Non ci siamo mai persi, alla fine dei conti. Siam sempre stati là. La società attuale, perlomeno quella italiana (e chiaramente mi riferisco a quella che ha rappresentato il mio campo di esperienza), non è morbida con chi rifiuta di indossare gli abiti già preconfezionati per noi (ma ho i miei dubbi, non credo si tratti di una prerogativa solo italiana, nonostante le differenze più o meno evidenti con gli altri paesi).
Ragazze, non vi siete mai perse. Questo è quello che vogliono farvi credere. Fate la valigia e andate a scoprirlo. La ribelle li ha fatti, i bagagli. Una volta, qualcuno mi disse che esiste un posto per noi nel mondo. Nel mondo.
La mia prima esperienza all’estero risale al 2007.
Ero a Parigi per raccogliere del materiale per le mie ricerche dottorali. Ho comprato una cinquantina di libri sulle avanguardie artistiche e politiche degli anni Settanta. Ne ho consultati forse di più.
Sei mesi di respiro. Sei mesi di scoperta. Sei mesi brillanti. Rientrare è stato un trauma.
Tornai che era metà giugno. Non ricordo precisamente quando, ricordo solo che non appena rimisi piede a Roma, capii che sarei prima o poi tornata in Francia.
Ora vivo a Lione. Mi era ormai chiaro che in Francia avrei potuto essere me stessa. Le rappresaglie del potere non mi facevano più paura.
Avevo le prove che esistono territori in cui si può essere liberi.
Liberi da cosa? Dalle imposizioni, da quegli abiti troppo stretti che comprimono il torace al punto da farti mancare il respiro. Prima di arrivare a Lione, son passata per Bordeaux, Bruxelles, Torino e Parma. Ho la fortuna di lavorare in un settore che mi permette di viaggiare, di cambiare città e datore di lavoro rapidamente.
Certo, la precarietà è all’ordine del giorno. Ma si può sopravvivere.
Ho trentasei anni. Mi occupo di comunicazione internazionale e affari europei. Prima, son stata ricercatrice e giornalista. Ho sempre voluto scrivere. Ma ho le mie colpe. Mi son sempre fatta condizionare dal contesto in cui sono cresciuta.
In tutti i fallimenti c’è sempre una porzione più o meno consistente di responsabilità. E credo che la mia responsabilità sia stata di spessore.
Scrivere è inutile, forse addirittura deleterio. A che serve?
Ci costruisci i ponti, con le tue parole? Ci curi un paziente affetto da una malattia terminale? Le tue parole garantiscono che troveremo una soluzione al riscaldamento globale?
In Francia, ho ripreso a scrivere. L’Italia non mi manca poi troppo. Qui a Lione manca il sole.
5 Commenti
. .che dire…grazie per averlo scritto, non servirà a costruire un ponte di cemento ma uno splendido ponte di nastro rosso tra persone si! Carla
Carla, perdonami, ti rispondo con un ritardo imperdonabile, non so perché non mi ero resa conto del tuo commento.
Solo per dirti grazie, grazie di aver letto.
Un abbraccio,
Amy
Cara Amalia,
quanta verità nelle tue parole!
Ad ogni rientro, sento che appartengo sempre meno a quel posto che oramai non chiamo neanche più casa, e sempre di più a me stessa e al mondo.
Ho cominciato a credere molto di più in me stessa e nelle mie capacità, a lamentarmi sempre meno e ho capito che la maggior parte delle colpe sono da riporre in quel famoso “signora, suo figlio è in gamba ma potrebbe fare di più…”. Sempre a trovare il lato negativo e a guardare il bicchiere totalmente vuoto.
Sono sempre stata diversa, più matura, più consapevole, più avanguardista e per questo molte volte (leggi: sempre) emarginata e incompresa.
Ora non lo sono più, o meglio non lo sono agli occhi degli stranieri perché agli occhi dei compatrioti e ribadisco, solo agli occhi dei compatrioti, resto sempre quell’aliena ragazza coraggiosa che ha scelto un’altra vita.
La tua unica responsabilità è quella di avere scelto di pensare a te stessa, alla tua vita, al tuo futuro e di scegliere ciò che ritieni più giusto e che ti permette di essere felice. E non è responsabilità, è un dovere morale.
Un abbraccio,
Silvia – Aix en Pce
Ciao bella mia,
Stavo rileggendo questo pezzo, e mi son resa conto di averti risposto, ma sotto. Quasi un anno fa, ormai. Contenta di averti conosciuta, Silvietta.
Bacio,
A
Mia cara Silvia,
Ti ringrazio per il commento, che comprendo e in cui mi ritrovo completamente.
Mi piace molto la descrizione che dai di te stessa (ad opera dei “compatrioti”): aliena ragazza coraggiosa. Mi piace davvero.
Ti abbraccio e a presto,
Amy