Agnieszka Zakrzewicz, giornalista polacca che vive in Italia, propone un suo articolo per Donne che Emigrano all’Estero: “Regina Bona Sforza, la prima femminista polacca”, riguardante la celebre immigrata italiana in Polonia e le sue attività in favore delle donne alla corte di Cracovia. Un sentito grazie ad Agnieszka per l’articolo molto interessante.
Regina Bona, la prima femminista polacca
“Sono tutte figlie della regina Bona” – penso spesso guardando dall’Italia queste donne che, nelle strade della mia natia Polonia, manifestano contro la sentenza della Corte costituzionale che ha vietato l’interruzione di gravidanza anche in caso di gravi malformazioni del feto, rendendo ancora più restrittiva la legge sull’aborto, già tra le più rigide d’Europa.
“E’ una guerra” – con questo grido migliaia di donne protestano da giorni, in tutto il paese, dalla capitale Varsavia, fino ai piccoli paesi delle campagne – un evento inedito per le aree rurali e tradizionalmente conservatrici del Paese.
È una guerra contro un patriarcato arcaico e misogino, non solo di Jaroslaw Kaczynski e della chiesa polacca, ma di tutta la società.
Bona Sforza, figlia del duca di Milano Gian Galeazzo Sforza e di Isabella d’Aragona, nel 1518 diviene la seconda moglie del re Sigismondo I, il Vecchio, assumendo il titolo di regina consorte di Polonia e granduchessa di Lituania.
È un falso mito che Bona avesse portato in Polonia le verdure (la cosiddetta “włoszczyzna”, cioè un mazzetto composto da radici di prezzemolo, sedano rapa, porri e verza italiana, con il quale si cuoce il tradizionale brodo polacco), il vino e che con lei fosse iniziato il Rinascimento polacco. Le verdure e il vino erano già arrivate con i mercanti stranieri che percorrevano la Via dell’ambra, e il Rinascimento in Polonia era già in corso, il castello di Wawel era in piena fase di ricostruzione dopo l’incendio del 1499, e ad essa partecipavano artisti e artigiani italiani, spostatisi dall’Ungheria.
In realtà la più celebre immigrata italiana che soggiornò per quasi quaranta anni sulle rive di Vistola, piantò in quel Paese i semi del femminismo.
A quel tempo, le donne colte, istruite e indipendenti erano un fenomeno sconosciuto e odiato in Polonia. Furono temute come demoni.
La donna polacca, detta la “białogłowa” (testa bianca), portava sempre un velo o un sobrio copricapo, camminava umilmente dietro il marito e non osava mai alzare gli occhi e aprire la bocca per prima o in presenza degli uomini. In una parola, era come la carpa d’acqua dolce. Bona era diversa. I suoi bei capelli folti e ricci color miele che ondeggiavano liberi al vento, ispiravano i versi dei poeti. Gli occhi scuri e scintillanti come carboni ardenti guardavano audaci e con superiorità. La scollatura profonda che mostrava il bel seno stretto da un corsetto, i raffinati abiti italiani e i copricapi provocatori suscitavano il disgusto dei bigotti.
Soprattutto Bona aveva un altro difetto: parlava, esprimeva opinioni, discuteva, criticava, consigliava il marito, ordinava, governava e si occupava di politica e di finanza.
Il vecchio re Sigismondo I fu discretamente influenzato dalla sua giovane moglie straniera, sebbene non cedesse mai a lei nelle questioni riguardanti gli affari di stato. Per questo atteggiamento di Bona Sforza, che oggi possiamo definire “femminista”, e che già all’epoca rivendicava le pari opportunità economiche e politiche tra i sessi, la regina consorte entrò rapidamente in conflitto con i numerosi dignitari e magnati in Polonia e Lituania, facendosi tanti agguerriti nemici.
La nobiltà, i notabili e il clero polacchi si sentirono offesi dalla “dissolutezza” della nobildonna italiana.
Se dobbiamo parlare con franchezza e raccontare tutto, bisogna aggiungere che nel castello di Wawel, Bona aveva trovato una famigerata compagnia: quella dei “Bibones et Comedones”, formata da alcuni cortigiani di Sigismondo I. Nelle loro feste, ubriacature e risse erano disgustose a giudizio della regina. La turbava anche il loro comportamento meschino, lo stile volgare, la stupidità e la prepotenza. Si trattava dei clichès tradizionali del tipico maschilismo polacco, purtroppo sopravvissuto fino ai tempi nostri.
Alla corte polacca della regina rimasero tredici donne italiane (le cortigiane Ifigenia, Beatrice Zurla, Lucrezia Alifio, Beatrice Roselli, Porcia Arcamone, Faustina Oppizoni, Laura Effrem, Isabella Dugnano, Laudomia Caracciolo, oltre a due governanti e due domestiche). La Sforza curò che tutte le sue damigelle si sposassero con uomini perbene e in seguito organizzò per loro una “clinica di maternità” di lusso nel castello di Wawel. Le donne vi si recavano per dare alla luce i loro bambini grazie all’aiuto di ostetriche esperte e senza troppi rischi per la loro vita e salute. Tutto ciò suscitava pettegolezzi e calunnie. Probabilmente solo grazie al suo rango, nessuno non osò di accusarla ufficialmente di contatti con il diavolo.
Sono passati cinquecento anni da quando la più celebre immigrata italiana, una expat per eccellenza, arrivò a Cracovia, come regina consorte.
Non fu molto amata e non fu capita dal popolo, ma rappresentò quella forza d’urto femminista che impressionò il potere. Spesso penso che fu lei a permettere alle carpe d’acqua dolce di emettere un grido. Un grido di donna come quello che risuona oggi nelle piazze polacche. Una voce soffocata da secoli.
NOTA DELL’AUTRICE
Durante i trentanove anni della permanenza di Bona Sforza in Polonia, oltre mille italiani avevano vissuto o visitato il paese, ruotando intorno alla nobildonna italiana e alla sua corte. Indubbiamente, questo fu il periodo più intenso dell’immigrazione italiana sulle rive della Vistola. Bona cercò sempre di procure loro un lavoro e vari incarichi di rango inferiore, per ottenere in cambio lealtà e servigi. Purtroppo non fu fortunata nello scegliersi le persone, che spesso tradivano la sua fiducia e i suoi segreti. Il protezionismo con il quale circondava i suoi compatrioti irritava la nobiltà polacca, che non intendeva perdonarla per questa “italianizzazione” della corte di Wawel.
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