Ripassare per un sentiero già percorso non è mai facile. Si può avere l’impressione che, conoscendolo già, non si possa essere sorpresi d ostacoli e imprevisti, ma non è così.
É quello che mi è capitato al decidere del mio ritorno in Italia dopo il secondo espatrio in Guatemala.
La decisione di tornare in Italia è stata molto combattuta, perché si trattava non solo di ricominciare, ma addirittura di mettere fine ad un matrimonio di undici anni così, dall’oggi al domani. Sicuramente un matrimonio che non era mai stato idilliaco, in cui le cose erano più capitate per caso che scelte assieme e meditate, in cui l’unico progetto comune, rivelatosi poi fallimentare, era stato proprio l’espatrio. Per me e per i bambini era un espatrio, per lui invece un ritorno nella terra che aveva sempre amato e per cui provava una nostalgia ingestibile. Per questo motivo, sarei ritornata di certo sulla stessa, nota strada, ma i passi sarebbero stati completamente diversi. Sarei stata sola ad avanzare, sola e profondamente mutata nell’animo: spaventata, scoraggiata e convinta di essere fragilissima.
Per prima cosa, quando una notte l’idea di un possibile ritorno in Italia si è fatta strada nella mia mente, chiara, prepotente, come fosse la cosa più ovvia da fare, ho provato ad immaginarmi le conseguenze pratiche e le mosse da eseguire, una dopo l’altra, come un piano di battaglia, e subito ho capito che non sarei voluta tornare esattamente da dove ero partita.
Se avessi deciso di tornare nella mia città, sarei stata immediatamente accolta come una povera sconfitta, perché tutti, conoscendo la mia storia, avrebbero provato pena per me, per non parlare dei miei genitori, che per proteggere me e i bambini mi avrebbero sicuramente reinglobato nel loro nucleo, sarei tornata ad essere figlia e non madre “capo” della mia, seppur monca, famiglia. Ho intuito che i bambini ed io avremmo avuto sì ferite profonde e dolorose da guarire, ma che era necessario farlo assieme, solo noi, per ricostruire le pareti del “nostro” nido, del nostro essere unità familiare. Il lutto per la fine del matrimonio con il loro papà era mio e solo mio, la sofferenza per non avere accanto più quotidianamente un genitore, anche se inadeguato e profondamente immaturo, era loro e solo loro. Non potevamo accettare intromissioni e sono certa che le opinioni negative sull’accaduto di nonni, zii ed amici avrebbero influito parecchio sulla cicatrizzazione delle nostre ferite.
Perciò, una volta accertato che non sarei tornata a vivere nella mia città, ho scelto una nuova meta; avevamo tutti bisogno di serenità e spensieratezza, perciò ho scelto il luogo delle mie vacanze da bambina, il posto che era stato teatro anche di momenti felici per almeno due dei miei figli. Ho scelto il mare…
A cascata, ho cominciato a rispondere ad un quesito dopo l’altro, non appena me l’ero posto: come mi sarei mantenuta? Ho spedito curriculum a tappeto a tutte le cliniche odontoiatriche della provincia, e ho trovato qualche appiglio. Dove sarebbero andati a scuola i bambini? Ho contattato le direzioni didattiche della città in cui saremmo andati. Come saremmo rientrati in Italia? Ho chiesto aiuto ai miei genitori e ad un’agenzia di viaggi italiana per acquistare i biglietti per noi quattro.
L’unica cosa che non ho potuto prevedere e risolvere é stata la reazione del mio ex marito di fronte a questo mio ritorno in Italia.
È letteralmente impazzito. Prima ha tentato di farmi desistere dal mio intento riversandomi addosso violenza e aggressività, minacce. Poi ha fatto di tutto per ostacolarmi legalmente nel mio rientro, per augurarmi il peggio, per rendere il più doloroso possibile il distacco. Ho dovuto lasciare tutto ciò che di materiale era mio, nella nostra casa, e ho perso tutto automaticamente. Sono partita con quattro valige e tre zaini, ripiene di giochi e vestiti dei miei figli (e di pannolini lavabili del più piccolo!) perché volevo che le rinunce fossero più mie che loro. Ho detto loro: “scegliete tre oggetti a cui tenete tantissimo e portate quelli nello zaino, perché nella valigia non ci sta più niente”.
Mio figlio Javier, che all’epoca aveva sette anni, mise nello zaino una padella con cui preparavo loro le crepes, la piastra per i waffle, e solo qualche piccolo personaggio di plastica per giocare. Mi spezzò il cuore vederlo camminare per l’aeroporto con quello zaino sbilenco e pesantissimo sapendo cosa conteneva. Ho tradotto questa sua scelta come il desiderio di un bambino di avere ancora le cose da mangiare conosciute, che la sua mamma gli aveva sempre preparato, invece dei suoi giocattoli… Avrà pensato “senza giochi posso sopravvivere, ma senza mangiare no” e questo se da una parte mi strappava un sorriso, dall’altra mi rattristava perché coglievo che nel mio bambino si era già insinuata la comprensione di un evento definitivo, imponente, di una svolta nella sua esistenza.
Dopo settimane di litigi furiosi, urla, pianti, terrore e incertezza perché ormai ogni sentimento era stato fatto a pezzi, ci siamo imbarcati su quell’aereo con le stesse facce che ho visto nelle foto dei migranti all’attacco di Ellis Island: stanche, interrogative, spaurite, rassegnate. Io, con il piccolo Budda ciccione di sei mesi aggrappato al petto nella fascia elastica, un bambino stralunato con gli occhiali storti calati sulle orecchie a sventola che trascinava uno zaino più grande della sua schiena, una nanerottola con una lunga chioma leonina e arruffati che singhiozzava, tra un silenzio e l’altro “il mio papà”, facendomi crollare ogni volta in un senso di colpa diverso.
Non so nemmeno come, attraversando el Salvador, il Venezuela e l’Olanda, fusi orari e aeroporti, siamo arrivati a Roma la tarda sera del 16 settembre. Ricordo bene i pensieri angoscianti che mi tartassavano impetuosi in quelle due ore d’auto tra Fiumicino e Montesilvano, con la testa abbandonata sul finestrino e gli occhi volutamente serrati per fingere di dormire e non dover parlare né con i bambini né con i miei genitori che erano venuti a prenderci; ricordo bene la sensazione di vuoto sotto i piedi che percepivo. Da quel momento, dopo aver distrutto ogni certezza per me e per i miei piccoli, avrei dovuto ricostruire tutto, poco a poco, a fatica, da sola.
A distanza di otto anni sono finalmente riuscita a scrivere di quei giorni, sono riuscita a raccontarvi questa storia per dimostrarvi che si può reinventare la nostra esistenza ogni volta che se ne senta il bisogno, ogni volta che si percepisca che il luogo che ci accoglie non è più la nostra casa, che il sentiero che stiamo percorrendo non ci condurrà dove vogliamo. Si può ripercorrere anche mille volte lo stesso sentiero già percorso e altre volte abbandonato, ma ogni vota saremo noi ad essere cambiate, ad affrontarlo con passi nuovi.
1 Commento
Ci vuole un enorme coraggio per affrontare un momento così difficile e uscirne a testa alta, Imelde. Occorrono coraggio, determinazione e quel pizzico di sana follia che non guasta mai. Grazie per aver condiviso queste tue parole con noi, nella speranza che ispirino e risollevino chi, come te, si è trovat* a dover ricominciare ancora una volta.