Siciliana a Londra: l’emigrazione e il senso di perdita
Testimonianza inviataci da Valentina, Londra
Chi è siciliana come me sa che l’emigrazione è una costante della nostra esistenza: generazione dopo generazione, ogni famiglia ha almeno un parente emigrato all’estero. Io stessa e molti dei miei amici ce ne siamo andati, chi al Nord, chi al di fuori dell’Italia.
Vite scandite da valigie che si fanno e si disfano.
Certo, sono cambiati i motivi per cui partiamo, è cambiato il modo di viaggiare e siamo cambiati noi. Non cambia il tono sommesso di chi resta quando parla di chi se ne va. Non cambiano i sospiri silenziosi dei genitori al telefono, che in fondo vogliono dire: “perché te ne sei andata?”.
“Ma allora torni, questo Natale?”
Vite scandite da grandi assenze, da eventi importanti che sono stati persi, da vite altrui a cui non riesci più a stare dietro. L’affetto, certo, quello rimane, ma essere parte della quotidianità di una persona è un’altra cosa. Si perdono piccoli frammenti alla volta e alla fine ti rendi conto che i frammenti si sono trasformati in opere complete in cui tu non sei inclusa.
Vite scandite dal senso di colpa verso chi abbiamo lasciato indietro.
Mi aveva colpito la storia di una ragazza in “Humans of New York”, di ritorno dalla California dove era andata a far visita a sua madre, dall’altra parte della costa; raccontava di come i suoi amici chiamassero questo tipo di viaggi “the lightbulb visits”, le visite della lampadina, perché ogni volta ne approfittava per svolgere piccoli lavoretti per la mamma anziana che erano rimasti in sospeso, come cambiare una lampadina a cui lei non riusciva ad arrivare.
Allora si rendeva conto che se lei non fosse tornata, la madre sarebbe rimasta seduta al buio.
Chiunque sia andato via dalla propria terra d’origine, anche solo una volta, si è sentito così.
Affetti lasciati indietro, costantemente in bilico tra la voglia di avventura e di andare lontano e il senso di colpa per non essere tra le persone che ami. Per averle lasciate sedute al buio.
Mi viene in mente l’immagine di me che salgo sul bus che dal paese mi porta a Catania e da lì all’aeroporto. Gli occhi lucidi dei miei genitori mentre mi guardano sparire tra la gente. Ogni volta. Ogni volta un dolore nuovo, un nuovo senso di perdita, come Prometeo che ogni giorno viene dilaniato dall’aquila prima di rigenerarsi.
Le nostre camerette sono ormai dei musei, reliquati di vite passate rimasti quasi intatti. Lasciati lì, come se ci aspettassero sempre. In attesa.
Ripenso a una filastrocca per bambini che mio padre mi recitava a memoria quando ero piccola:
Una mamma è questo mistero.
Tutto comprende, tutto perdona,
tutto soffre, tutto dona,
non coglie fiore che per la tua corona.
Puoi passare da lei come straniero,
poi farle male in tutta la persona:
ti dirà: “Buon cammin, bel cavaliero!”.
Una mamma è questo mistero.
Buon cammino, bel cavaliero. Forse questa frase racchiuse in sé il senso dell’amore più grande, quello incondizionato. Quello che accetta di separarsi.
Perché in fondo è giusto cosí.
Abbiamo scelto di perseguire il nostro obiettivo e intraprendere il nostro cammino, anche se non è quello più semplice e immediato.
E loro, le persone che ci amano, lo sanno. Sanno che non potrebbe essere diversamente o che non potremmo essere felici allo stesso modo.
Perché, come scrive Pino Cacucci: “Le radici sono importanti, nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove”.
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