È possibile avere due date di nascita? Nel mio caso, sì. C’é quella anagrafica, il 22 giugno, e quella della (ri)nascita, il 21 ottobre 2023.
Una data importante é anche il 25 settembre, non solo perché é il giorno in cui é nata mia figlia ma per un mio scampato pericolo (vedi in seguito). Curioso poi che mio figlio sia nato il 27 dicembre, segno che le date con un 2 iniziale sono significative nella mia vita. Infatti, anche mio papà nacque il 20 dicembre, mia mamma il 29; poi ci sono due zii materni, il 23 e 28 rispettivamente.
Raccontare della mia (ri)nascita significa anche parlare del sistema sanitario inglese (NHS, l’abbreviazione di National Health System), un servizio pubblico e completamente gratuito.
Il sistema fu creato nel 1948 (1969 per il Galles), parte delle riforme sociali inziate dopo la fine della seconda guerra mondiale. Fino a allora, l’assistenza medica era a pagamento e quindi non accessibile ai ceti meno abbienti. Ci sarebbe molto da scrivere in merito all’NHS ma mi limito a dire che ha dei centri di eccellenza e alcuni problemi come le lunghe attese al Pronto Soccorso, dovute alla difficoltà di prendere un appuntamento con il dottore della mutua (GP), la mancanza di personale, lo sperpero di fondi pubblici e sacche di malasanità, soprattutto nei reparti di maternità, per citarne alcuni. Il fatto che sia accessibile a tutti ne causa anche l’abuso.
Io devo la mia (ri)nascita al sistema sanitario inglese.
Succede che il 20 ottobre dello scorso anno, dopo qualche giorno di malessere allo stomaco curato con il paracetamolo, che qui in UK é la prima risposta a qualsiasi malessere, mi sveglio sentendomi poco bene. Resami conto che non sarei riuscita a lavorare, disdico due riunioni di lavoro e informo il mio responsabile che avrei preso un giorno di malattia. Combinazione anche mio figlio non sta tanto bene e non é andato a scuola. Il tempo di scendere in cucina, sedermi e, improvvisa, una fitta tremenda al fianco che mi toglie il respiro. Mi alzo, e il dolore é ancora più forte, interessa anche la spalla sinistra.
Mi sdraio sul divano, pensando possa aiutare, ma niente: il male é talmente forte che comincio a urlare. Spaventato, arriva mio figlio a chiedere cosa succeda ma non sono nemmeno in grado di parlare. D’accordo con la sorella, che é a Manchester all’università, chiama un’ambulanza, sebbene io dica di no, con la decisione del personale paramedico di portarmi in ospedale per un controllo.
A questo punto comincia una vera e propria odissea/agonia.
Arrivati verso le 11:30, la giornata trascorre intermninabile: urlo a squarciagola fatta eccezione per i momenti di incoscienza a seguito della somministrazione orale di morfina. Per chi non l’ha mai provata, ha un sapore assolutamente abominevole e vomito ogni volta (tre) che me la somministrano. A un certo punto, nel tardo pomeriggio, arriva una mia amica, avvertita da mio figlio che, stoicamente, é rimasto con me alla quale, sfinita, a un certo punto dico che sto morendo. E lo grido anche, che qualcuno mi aiuti perché sto morendo.
In un momento di lucidità dalla morfina, sento che cercano di contattare mio fratello. Hanno bisogno di qualcuno che dia il consenso all’operazione e mia figlia, che é la mia next of kin, cioé la persona da me designata per prendere decisioni al mio posto, non sa cosa fare e vuole parlare con mio fratello. Il lato comico della vicenda é che mio figlio non trova il suo numero nel mio telefono perché da buon inglese, lo cercava come Paul invece di Paolo…! Alla fine il consenso lo firmo io, e l’ultima cosa che ricordo é mio figlio che mi saluta dicendomi “I love you”, e il nostro fist bump. Scopro al risveglio, il 21 ottobre appunto, di avere avuto una perforazione intestinale e sepsi, e di essere stata salvata per un pelo grazie a un’operazione complessa durata cinque ore.
Alla fine rimango in ospedale per un mese perché dopo circa dieci giorni mi scoprono una polmonite con liquido nei polmoni. Questa richiede il mio trasferimento in terapia intensiva per la quantità di ossigeno del quale necessito. Per la seconda volta nel giro di poco tempo, mi ritrovo a un passo dalla morte: non riesco più a respirare. Convinta che sia la fine, decido di comprare a mio figlio il PS5 che mi chiede da tempo e per il quale aspettavo Black Friday, convinta che sia l’ultimo regalo che riceverà da me. Per fortuna il mio chirurgo, preoccupato dalle mie condizioni, ha chiesto un intervento immediato che arriva nella forma di un drenaggio polmonare. Pericolo superato.
In tutto, sono rimasta in ospedale un mese.
È stata un’esperienza che non ho ancora metabolizzato. Pur consapevole che nessuno di noi sia immortale, un po’ perché mi sembra solo ieri che avevo 20 anni e un po’ perché nella mia famiglia i miei parenti hanno vissuto tutti fino a 80 e anche 90 anni, non ho mai pensato che la mia ora potesse essere vicina. Godo di buona salute, e ho superato altri momenti critici. Il primo, concide con la nascita di mio figlia: un parto cesareo programmato che improvvisamente prende una brutta piega forse per un errore sanitario. Mia mamma mi aveva messo un’immagine di Padre Pio sotto il cuscino e sono convinta che mi abbia aiutato: ricordo infatti chiaramente una “voce” che mi dice che non é ancora il mio tempo. Ho poi avuto un aborto spontaneo, tre volte la meningite virale e diversi interventi chirurgici: mi sono sempre ripresa, “normale” allora pensare di vivere una lunga vita.
È stato diffiicile da un punto di vista emotivo e fisico, soprattutto con la polmonite. Sinceramente, non pensavo sarei mai uscita dall’ospedale o perlomeno, non a breve. Anche dal punto di vista logistico: mio figlio a casa da solo, alla presa con le lavatrici, la scuola e il calcio. Non ha distrutto casa ma mi é costato una fortuna in take aways! Mi ha pesato la solitudine, il prezzo di essere expat e pure single. Ho potuto contare sulle visite di alcuni amici, davvero apprezzate, e le lunghe telefonate quotidiane con mia cugina in Italia.
Ha messo a prova la mia proverbiale impazienza: in un ospedale pubblico ogni cosa richiede tempo. E ho vissuto due strane esperienze: un paio di giorni dopo l’intervento, in un pomeriggio di dormiveglia, infastidita dalle voci in stanza dei parenti in visita, ho avuto la sensazione netta di avere qualcuno dietro la mia testa, e che questo qualcuno fossero i miei famigliari scomparsi, venuti a farmi visita. In un’altra occasione, ho sentito la voce di mia mamma dire il mio nome e mentre tamponavo la puntura sul dito con un fazzoletto di carta, ho visto un piccolo cuore prendere forma.
Ho anche toccato con mano le difficoltà in cui versa l’NHS.
Dall’occasionale mancanza di lenzuole o camici puliti a quella delle medicine, passando per la carenza di personale, soprattutto nel fine settimana. Oppure gli sprechi, come le televisioni per ogni letto di terapia intensiva nessuna delle quali funziona (ma quanto saranno costate?) e anche se funzionassero, manca il telecomando, sono troppo lontane (sul soffitto) per vedere bene e mancano le cuffie. Il cibo? Tutto sommato decente, almeno per il mio palato; certo, poi bisogna sapere scegliere.
Non sono mancati i momenti di ilarità soprattutto grazie a una signora albanese, mia vicina di letto per circa 10 giorni. Parlava pochissimo inglese nonostante vivesse qui da più di venti anni: comunicavamo via Google translate. Irritante a volte, é stata comunque una compagnia e piccina, ha pianto quando mi hanno trasferito di reparto. Oppure la signora irlandese che appena sistemata nel reparto chiede all’infermiera “come funziona per il the qui perché io ne bevo parecchio”! Persona poco amata dal personale, per un atteggiamento veramente dispregiativo nei loro confronti, e pure da noi “compagne” di stanza.
Alcuni dei miei ricoveri sono stati presso ospedali privati, grazie all’assicurazione medica. Queste strutture sono in genere nuove, o ristrutturate; le camere sono singole e dotate dei comfort di base, tipo bagno e TV; i menu fanno concorrenza a quelli di un ristorante. Certamente un altro ambiente.
Ma io sono grata all’NHS che nel bene e nel male offre un servizio a tutti, a volte imperfetto (ma esiste un sistema perfetto?) ma sempre importante, e al quale devo la mia (ri)nascita.
1 Commento
Elena non sapevo che odissea avessi sopportato!! avevo letto dell’ ospedale ma non sapevo nel dettaglio e mi dispiace davvero molto, penso alla solitudine che avrà provato tuo figlio a casa, spaventato per te, alla tua in ospedale…sei davvero fortissima…ce l’ hai fatta (anzi ce l’avete perché anche i tuoi figli devono essere delle rocce!) anche stavolta!! un abbraccio