Una domenica in Cina
Vago spesso per Canton in questi ultimi giorni di primavera.
Ci sono trenta gradi, un cielo quasi (quasi!) limpido e una brezza lieve lieve che fa ancora respirare prima della rovente cappa estiva.
Il fiume delle Perle, enorme, con una portata dieci volte il Po, scorre tra i grattacieli e i baniani dalle radici esterne, verso il delta che abbraccia Hong Kong e Macao, qualche centinaio di chilometri più in là. La nuova Canton è tutta verde, nonostante i grattacieli della Zhujiang New Town e i condomini alti almeno cinquanta piani.
Da questo lato della città Il fiume delle Perle è costeggiato da distese d’erba e palme.
Tra le foglie spunta la coloratissima Canton Tower, la torre della televisione, che di notte si illumina dei colori dell’arcobaleno, come una bandiera di pace alta 600 metri. Questa zona, che ospita il centro finanziario e le ambasciate, è moderna, lucida e poco trafficata, e nelle giornate di sole ci si può sdraiare sull’isola verde al centro del fiume, Ershadao, o bere qualcosa nei tanti locali con i tavoli all’esterno.
Quest’aria da metropoli tropicale è già abbastanza esotica così.
Basta però prendere un qualsiasi mezzo di trasporto e spostarsi più a est per ritrovare la Cina vera, nonostante palme e cocchi.
Canton è fisicamente diversa dalla Cina conosciuta ai più, ma il cuore è lo stesso. Ieri, una bella domenica soleggiata, ho deciso di andare a fare un giro per i mercati del fake market.
Intorno alla stazione centrale di Guangzhou (Canton), un posto terribile che puzza di piscio, dove i viaggiatori delle grandi distanze dormono sui cartoni a terra e poveri disabili senza almeno un arto chiedono l’elemosina accompagnati da grosse casse dalle quali escono musichette scoordinate, si ritrovano decine di centri commerciali di abiti e scarpe a poco prezzo o fake.
Le insegne sono tutte in cinese, inglese e arabo perché è qui che vengono a fare affari persone da tutto il mondo, qualcuno con un’elegante ventiquattrore, qualcun altro con grossi sacchetti neri.
I centri commerciali puzzano un po’ di plastica, un po’ di tessuto economico e ognuno ospita centinaia di negozietti minuscoli tra i vicoli e le svolte di questi strani palazzi, dove si vende di tutto.
Si trovano persino negozi di sacchetti ed etichette, di manichini, di pelle conciata, colorata e sbrilluccicosa e dall’odore nauseante. La musica da discoteca esce diversa da ogni negozio in una cacofonia che, insieme alle luci e agli odori, dà alla testa.
Alcune attività non vendono al dettaglio, spediscono solo merci all’ingrosso in India, Medioriente e Africa; altre invece offrono prodotti sfacciatamente finti: Amianni Jeen, Timeland, Cristieh Dion.
All’esterno di questo centro del business, il traffico è assordante.
Come nella “Cina vera” ci sono i taxi scooter che ti chiamano insistenti (nella città nuova gli scooter e le moto sono stati banditi), i marciapiedi sono affollati da stranieri con valigioni pieni di merci e da senzatetto cinesi, che ti guardano dai loro sacchetti e cartoni senza chiederti niente, gente che sputa e rutta cammina per le strade, e i banchetti di cibo si susseguono offrendo manghi enormi, mangosteen e cocchi freschi con un buco sulla sommità per berne il latte con la cannuccia, a soli 70 centesimi.
Di fronte al banchetto dei cocchi ci sono delle panchine, quasi tutte occupate da sacchi, cartoni, persone accovacciate “all’asiatica” che guardano questo assurdo via vai.
Cerco una panchina libera e mi metto anch’io a osservare chi passa mentre sorseggio il mio cocco, persone di tutti i colori, di tutti i tipi, raccolte qui in nome del business: arabi con le camicie aperte e la barba ben curata, donne africane con i vestiti multicolori, contadini cinesi e abbronzati con le loro cassette di frutta tropicale, enormi uomini dalla pelle scura, qualche occidentale con la ventiquattr’ore.
Sono solo le sei e mezza e il sole è già una palla perfetta e rossa che scende in fretta oltre i condomini arrugginiti e i fili elettrici; la brezza sospinge le liane dei baniani che abbracciano questa umanità mista e rumorosa, sudata per l’afa della primavera tropicale, rimbambita dai neon e dal frastuono della Cina.
Chi sono
4 Commenti
Un bel reportage. Mi piace. Se poi aggiungi un filmato coi rumori e coi profumi (non hai ancora la app! Non son riusciti a copiarla in Cina!) meglio ancora.
La stanno creando sicuramente, fidati ahhaha
Leggo e mi sembra di essere là.
Qualche giorno fa qualcuno mi ha detto, puoi andare via falla Cina ma la Cina non andrà via da te.