Mamma, ho perso l’inglese!

“Comunichiamo?”
Image credits: Markus Koljonen
Il 2 febbraio scorso scopro che il Consiglio di Stato ha bocciato la proposta del Politecnico di Milano di organizzare corsi di studi di laurea magistrale e dottorato solamente in inglese.
Confronto le fonti, divoro le opinioni dei vari siti internet e, senza nemmeno accorgermene, mi trovo a scuotere la testa in un evidente segno di diniego. Che cretinata che hanno fatto, bisbiglio mentre chiudo la pagina delle news e mi accingo a partecipare al primo meeting mattutino in ufficio.
Un’ora più tardi sono di ritorno alla mia scrivania dove mi aspetta il Direttore Tecnico.
So Valentina, how did it go? mi domanda curioso.
Not bad – rispondo, mostrando il pollice in alto – I managed to get some agreements with our stakeholders, but there are a couple of actions to follow up due to some missing info. We agreed to talk again in a couple of days, after checking some data.
Sorride, soddisfatto della risposta, mentre io mi siedo e ricomincio a digitare sulla tastiera. Ed è in quel preciso momento che, come un flash improvviso, un pensiero mi attraversa la mente: è davvero necessario frequentare i corsi al Poli in inglese?
Un curniciello per salvare l’italiano

Peperoncino magico?
Il Consiglio di Stato giustifica la sua decisione adducendo tre principali ragioni: la conservazione del patrimonio culturale e linguistico, il diritto di uguaglianza nello studio e la garanzia di autonomia e libertà nell’insegnamento.
Le spiegazioni esposte dal Consiglio sono legittime e fondate su valori cruciali della nostra società. Eppure non posso fare a meno di pensare che riecheggino come antichi rituali propiziatori a difesa di una poderosa corazzata in piena fase di lancio.
Quella perfida Albione
Che l’italiano e la nostra cultura siano un patrimonio nazionale e, perché no, mondiale credo sia un dato di fatto.
I secoli di storia, i riconoscimenti dell’UNESCO e l’amore che molti studiosi nutrono nei confronti del nostro retaggio ne sono un’evidente prova. Come affermato dal Rettore Prof. Resta, ogni anno circa 6.000 tra studenti e ricercatori stranieri studiano e lavorano al Politecnico ed imparano la lingua italiana.
E ritengo giusto che ci sia questo sforzo da parte di chi si inserisce in una nuova realtà. Io stessa, nel mio peregrinare nordico, ho imparato il norvegese (bene) ed il danese (di traverso). Non è solo una questione di sopravvivenza. È un modo per integrarsi, per capire chi ci sta di fronte ed avvicinarlo.
Dalle parole del Consiglio, sembra invece trasparire il timore che la lingua di Albione si insinui a partire da un contesto professionale e vada a minare l’inattaccabile centralità e l’indubitabile valore che l’italiano mantiene nella nostra vita e nel mondo.
Parafrasando Goya: la paura ha generato perfidi mostri.
Ma mi faccia il piacere!
È pur vero, però, che, per seguire dei corsi in inglese, l’inglese va saputo. Tanto al di là, quanto al di qua della cattedra.
Non è compito del Politecnico insegnare la lingua, quel bagaglio dovrebbe essere già stato costruito. Se la presenza di soli corsi in inglese è vista come un impedimento all’accesso al corso di laurea, il problema risulta essere molto più grave. Non è più una mera questione di quale corsi seguire in quale università. Significa che lo studente non ha ricevuto dalla scuola dell’obbligo una formazione adeguata all’anno 2018.
Diventa una controversia vitale, un limite impervio nell’approccio verso il mondo del lavoro che lo studente vivrà da lì a 5 anni.
Se la visione è quella di un ingegnere o di un architetto che si guadagnano da vivere nella loro provincia, allora fermiamoci qui, non ha senso continuare a discuterne. Trovo però tale percezione del mondo del lavoro molto ingenua e pericolosa. Ingenua, in quanto non prende in minima considerazione la concorrenza internazionale. Pericolosa, poiché chiude le porte a possibili collaborazioni al di là dei nostri confini.
Anche l’occhio vuole la sua parte
Su un punto mi trovo d’accordo: quando l’insegnamento è impartito in inglese, il docente deve essere in grado di comunicare efficacemente in tale lingua.
Meglio una buona spiegazione in lingua madre, che un delirio in qualsiasi altra forma.
Inoltre, come già espresso, non ritengo sia obiettivo del Politecnico insegnare lingue, per cui, a rigore di logica, la valutazione del sapere dello studente durante un esame dovrebbe attenersi al contenuto specifico della materia insegnata.
Eppure qualcosa non torna.
Se ripenso a tutti i documenti – in inglese, c’è da dirlo? – che ho preparato nel mio lavoro quotidiano, mi viene quasi da pensare che svolga un lavoro di segretariato. Ma è il quasi a fare la differenza.
Più del 50% di quei documenti è stato presentato ad enti di certificazione internazionali, il 20% è servito come supporto per la presentazione del prodotto ai clienti e meno del 30% è rimasto come uso interno del dipartimento di progettazione. Come posso pensare di convincere gli esperti della certificazione, i clienti, persino il mio capo, se non capiscono nemmeno cosa ho scritto nella documentazione tecnica?
I numeri parlano una lingua internazionale, nessun dubbio, e massima precedenza deve essere data al contenuto. Tuttavia è il contenitore ad essere in grado di veicolare e valorizzare al massimo il messaggio racchiuso.
Chi sono
10 Commenti
Una tua frase è l’emblema di tutto il problema “Se la visione è quella di un ingegnere o di un architetto che si guadagnano da vivere nella loro provincia, allora fermiamoci qui, non ha senso continuare a discuterne”.
L’Italia non è proiettata verso l’estero, l’estero è un mostro che vuole divorare la sua cultura, l’estero sono i soldi che arrivano sotto forma di fondi e persone che spendono, l’estero non vale la pena nemmeno conoscere perché si sa che in Italia c’è tutto meglio, l’estero quindi è solo qualcosa da succhiare e poi buttare via come si fa con i chewing gum.
Non credo che impareremo mai. Del resto siamo discendenti di quelli che parlavano di filosofia mentre conquistavano l’estero, quella landa desolata e popolata da barbari. Perché dovrebbe interessarci?
Ciao Angolo di me Stessa, grazie mille per aver condiviso i tuoi pensieri e aver letto il mio post.
Devo ammettere che la sensazione che ho avuto leggendo le motivazioni del Consiglio é proprio quella di un quanto-mai-confuso timore dell’internazionalizzazione. “Ma é mai possibile che la convivenza non possa sussistere?? “ mi sono chiesta.
Mah, io continuo a credere di sì. 😉
Un saluto!
Credo che la radice del problema sia data dal modo in cui l’inglese (non) viene insegnato all’interno della scuola dell’ obbligo. Si comincia troppo tardi (ovvero alle scuole medie) e si fanno troppe poche ore salvo che nei licei linguistici.
Io parlo inglese perché ho deciso di studiarlo da autodidatta, altrimenti sarei ferma a “what’s your name?”. Purtroppo dobbiamo fare così se non abbiamo soldi per un corso.
Ciao Isabella,
Grazie mille per aver condiviso la tua esperienza e aver letto il mio post! Intanto, “thumbs up” per il tuo sforzo e la tua perseveranza nell’imparare la lingua!!
Oltre al limite di ore che hai menzionato, mi permetto anche di aggiungere la scarsa possibilità di attingere a letteratura e filmografia in lingua originale. Grazie ad internet questa scarsità si va via-via riducendo.
Grazie per il tuo contributo! Un saluto!
Grazie a te Valentina! Ti dirò di più: sto rimpiangendo di non aver studiato Lingue e Letterature straniere all’ università.
Nessun rimpianto, Isabella! ?Ci saranno state le dovute ragioni perché fu fatta un’altra scelta. Ciò che importa è la volontà di fare qualcosa oggi ?
L’inglese ad oggi viene insegnato già dalla primaria e spesso, se non quasi sempre, ci sono laboratori anche all’infanzia.
Resta insormontabile ad ora il problema di professori che possano condurre dei corsi in inglese. Non è menefreghismo, ma la formazione ricevuta a suo tempo predilegeva (e nella maggioranza dei casi era l’unica opzione) la lingua francese.
Non penso tuttavia sia inconciliabile l’idea di inserire laboratori di approfondimento con terminologia in lingua inglese, da affiancare al corso specifico magari.
Ciao Chiara,
Grazie mille per aver esposto il tuo punto di vista e aver letto il mio post!
Sí, sono d’accordo sul fatto che manca una preparazione di base da parte di alcuni (non tutti) docenti. Probabilmente le motivazioni richiederebbero un altro post 🙂
Interessante l’idea di laboratori specifici in lingua: aiuterebbe molto l’acquisizione di terminologia specifica e, perché no, ci si potrebbe persino spingere verso l’introduzione di laboratori di scrittura tecnica inglese.
Grazie e un saluto!
Il mio istintivo commento è… Restiamo sempre indietro rispetto ai vicini europei. L. Istituto di cultura francese presente in tutto il mondo fa enormi cose per divulgare lingua e patriminio nazionale. Eppure gli studenti francesi studiano inglese e lo parlano decisamente meglio di quelli italiani. Per lavorare in qualunque istituzione europea si deve dimostrare di padroneggiare due lingue oltre la propria. Gli istituti di cultura italiana all’estero a differenza dei francesi, chiudono. E noi restiamo sempre un passo indietro.
Ciao Laura,
Grazie per aver lasciato la tua traccia e aver letto il mio post! Ti dirò che quello che ho percepito leggendo la sentenza del Consiglio è la paura che l’introduzione di corsi in sola lingua inglese producesse la sparizione dell’italiano da lì a 1 anno! La mia esperienza scandinava mi insegna che si possono tenere lezioni in inglese senza annientare la lingua locale, anzi! E dalle tue parole, comprendo che anche in Francia è così.
Insomma: una chiusura su cui dissento.
Grazie ancora e un saluto!