Solo il treno “L” porta a Williamsburg, quartiere trendy e “cool” di Brooklyn. Chiamato simpaticamente “Billisburg” dai giovani residenti, molti dei quali artisti.
Prima di dirigermi verso il profondo sud scendo in Union Square per comprare dei CD alla Virgin. Union Square e’ giovane e fresca. Io la considero una piazza sebbene negli Stati Uniti non esistano le piazze vere e proprie.
La piazza , intesa come centro, come spazio fisico che si sviluppa attorno ad una chiesa o al municipio, rimane un concetto tutto europeo. Usualmente i ragazzi Italiani si danno appuntamento “in centro” per un aperitivo . I giovani newyorker decidono di incontrarsi invece davanti ad uno Starbucks, oppure di fronte a Barnes and Nobles , o all’incrocio fra una street e una avenue.
Union Square e’ particolare, variopinta, dinamica, affascinante.
Da un punto di vista archittetonico si presenta in effetti come una piazza “petite”. Una sorta di piccola arena incompleta, iniziata ,ma mai finita, lasciata li’.
Generalmente, funge da punto di riferimento per manifestanti, simpatizzanti e leaders di qualche cosa.
Il sabato mattina si trasforma in un luogo piu’ che godereccio dove si raccolgono le bancherelle di un mercato rionale fatto di prodotti organici e tenuto in piedi da venditori ambulanti che espongono la loro merce etnica.
La struttura ad arena attrae vivacemente gli skaters, soprattutto i principianti ,che si divertono a sperimentare diversi percorsi , piroette, ed altre acrobazie, mentre scendono a zig zag dai piccoli gradini.
Alla domenica pomeriggio e’ facile trovare gruppi di ragazzi che allietano i passanti con le loro performances artistiche o pseudo tali. Giovani uomini dai corpi flessuosi ed instancabili che propongono esercitazioni di break dance, capoeira, balli latini. Io mi faccio trasportare sempre da tutto questo subbuglio, da questo crogiolo di lingue e culture, da questa mescolanza di grida, canti e suoni di strumenti musicali.
Mi sembra veramente di trovarmi al centro del mondo, nel mezzo di una comunita’ che si tiene unita al cordone della globalizzazione.
Quando vado a Brooklyn cerco sempre di optare per un look da alternativa, da creativa nevrotica , da scrittrice paranoica, da aspirante attrice, da stilista emergente, da leader girl di una boy band squattrinata ma trendy.
Oggi rammento un po’ Emily The Stranger, Emily la Stramba, con il mio vestitino corto, le calze a rete, i miei Doc Martins’ fuchsia, il mio anellino al naso, le mie unghie nere, il mio caschetto scuro di capelli stirati meticolosamente con la piastra professionael, lo strato spesso di mascara, e la mia borsa di tela a tracolla color verde militare, con gli orli sfilacciati.
Scendo alla fermata Bedford Street e mi immergo subito nell’atmosfera rarefatta e pacifica dell’artistica comunita’ locale.
Arrivo al Fleahmarket domenicale dove ho appuntamento con Merrill, la mia amica designer che vende raffinate scarpe vintage di produzione propria.
Potrei spingere Merrill dall’altra parte del globo con un soffio. Un solo soffio. Fffss. Merrill e’ un essere minuscolo e quasi etereo, sembra un uccellino pronto a spiccare il volo. Si muove con un’eleganza naturale, senza fare rumore, aggraziata e composta come una ballerina classica d’altri tempi. Il suo corpo estremamente magro e’ tenuto in piedi da un ammasso caotico, aggrovvigliato e denso di capelli riccissimi , disordinati e scomposti a regola d’arte. Il naso minuscolo dal taglio perfetto e’ bilanciato da un paio di occhi verdi enormi incorniciati da sopracciglia lunghissime e naturalmente arquate.
Un viso struccato che non ha bisogno di aggiungere ne’ colori ne’ sapori artificiali.
Io e Merrill ci siamo conosciute ad uno dei party serali organizzati all’interno del museo di storia naturale ogni primo venerdi’ del mese. Il nostro e’ stato amore a prima vista, abbiamo fatto click da subito, si e’ creata spontaneamente e dolcemente quell’intesa destinata a durare per sempre, e sfociata rapidamente in un’amicizia senza regole ne’ tabu’.
La sua bancherella si trova alla fine dello spazio interno del mercatino delle pulci.
Merrill se ne sta graziosamente seduta in un piccolo sgabello laccato di rosso , sommersa da una moltitudine di scarpe che odorano di pelle, di tele disegnate, di sogni e di segreti gelosamente custoditi.
Mi vede e si illumina, corre verso di me, mi stringe con le sue braccia sottili, senza carne ne’ ossa, mi saluta con un bacio profumato e una scia candida di denti al mentolo. Bellissima. Merrill non sa di essere cosi’ bella.
Secondo me e’ una creatura solo di passaggio in questo girotondo inarrestabile che noi persone normali chiamiamo vita.
A me piacciono le cose belle. Per questo non riesco a staccarmi da Merrill. Le donne non mi attirano sessualmente , per niente. Dopo anni di confuso e divertente nomadismo in questo pianeta, sono sicura che voglio fare l’amore solo con gli uomini. Anzi, l’idea di essere anche solo sfiorata da una persona del mio stesso sesso, non mi eccita per niente, forse un po’ mi infastidisce persino.
Ma le donne sono molto piu’ belle degli uomini. Verita’ incontestabile. Punto.
Mi soffermo sempre ad ammirare una bella ragazza. La scruto con pedante perseveranza, mi immergo nei suoi lineamenti, contorno idealmente i tratti del suo viso, la fronte , il naso, la forma delle labbra, e poi proseguo verso le linee delle spalle, le braccia, la curva del ventre, le rotondita’ del sedere, non mi sfugge nulla, come se stessi seguendo
una lezione di anatomia e di estetica fuse insieme.
Merrill abita in un loft dismesso posto ad un isolato dal mercatino vintage dove ci troviamo in questo momento.
Capisco subito dalla sua espressione che la giornata non le sta dando molti frutti, si sta annoiando e ,soprattutto, non vede l’ora di sbaraccare, chiudendo un altro paragrafo della sua vita da artista.
Bea, qui oggi non va proprio, davvero, onestamente, direi che tu potresti venire a casa mia, ci beviamo un the’ , ci rilassiamo un pochino e poi vediamo come butta- riesco a malapena a carpire le sue parole perche’ le pronuncia sbadigliando nello stesso tempo.
Aspettavo trepidante che lei me lo chiedesse. Mi prende assai bene l’idea, il suo loft e’ cosi’ fico, fa molto “Brooklyn”.
Aiuto la mia amica a riporre le scarpe nei contenitori di plastica rigida trasparente, quelli con le rotelle, quelli facili da trasportare da una street all’altra, quelli che non creano problemi. Pieghiamo le lunghe tavole in legno , infiliamo i cartellini coi prezzi in una busta gialla malmessa.
Merrill raccoglie i suoi rifiuti, testimonianze viventi della sua giornata trascorsa lenta e noiosa in questo pomeriggio di inverno.
Ci trasciniamo dietro le pesanti scatole con la merce.
Appena apriamo la porta del loft ci invade un profumo misto di spezie , di incenso ,e di erba. I miei occhi si socchiudono di fronte alla luce abbagliante che entra dalle ampie finestre distese lungo l’intera parete.
Merrill divide questo spazio con altri due coinquilini, che gli Americani chiamano piu’ simpaticamente “roommates”, compagni di stanza.
Individui appartenenti alle piu’ svariate sfere socio-culturali e linguistiche che spesso finiscono con il diventare anche compagni di bevute, di abuso di sostanze illecite, di performances sessuali e amorose. I roomates , come mutanti, si possono a seconda dei casi trasformare in qualcun altro e in qualcosa d’altro, che ben poco hanno a che vedere con l’innocente parola italiana “compagno di stanza”.
Mi affaccio come una bimba ai finestroni del loft per ammirare il panorama. La vista da qui e’ veramente imperdibile, il punto migliore per conquistare uno sguardo a 360 gradi dell’isola di Manhattan, di quell’isola aldila’ del ponte di Williamsburg.
Si tratta di due diverse prospettive, solo di questo si tratta.
Manhattan e’ concettualmente il centro di New York, il centro dell’ universo anche, mentre il Queens, Brooklyn e il Bronx risultano essere come dei satelliti che orbitano attorno all’isola. Tuttavia, dalle finestre logore e sporche del loft di Merrill, Manhattan non e piu’ nel mezzo di nulla, non e’ piu’ il fulcro di niente e perde decorosamente la sua funzione di epicentro, mentre e’ uno dei satelliti, in questo specifico caso il territorio di Brooklyn, ad imporre la sua supremazia dall’alto.
Vado in bagno a lavarmi le mani.
Bagno. Solo una parola come un’altra.
Mi aspetta la tipica toilette vecchio stile, unta e logora, col pavimento dismesso e graffiato, il lavandino segnato da profondi squarci neri e la vasca ovale, col fondo grigio, le piastrelle con le crepe, il soffitto alto e stinto, la maniglia della porta che non funziona piu’ .
Il solo pensiero di farmi una doccia qui mi fa rivoltare lo stomaco.
Sfortunatamente a Brooklyn cio’ che e’ fico, “cool”, non e ‘detto possa essere anche pulito e aggiustato, anzi.
L’acqua scorre fredda, la sfioro con le unghie e poi con le dita e poi con il polso, mi asciugo le mani strofinandomi sulle cosce perche’ voglio evitare di usare l’asciugamano.
Bagno a parte, in questo loft mi sento cosi’ bene e in pace con me stessa che ne vale la pena.
Tutto vale la pena.
Rimanere con le mani sporche ma essere felice. Felice.
Esco dal bagno, e Merrill sta gia’ rulllando una canna, se ne sta sdraiata sul divano, inspira un po’ di fumo e poi mi passa lo spinello.
Andiamo al Surf Bar a farci una sangria – mi propone con la sua voce naturalmente fumosa, che adoro.
Il surf bar resta uno dei miei locali preferiti a Williamsburg dove andare a prendere un aperitivo.
Centra poco o nulla con il resto del quartiere, ha uno stile tutto suo, californiano e marittimo. Al soffitto sono appese tavole da surf. Tutte diverse una dall’altra. La nota piu’ interessante resta comunque il pavimento, un pavimento che in realta’ non esiste perche’ al suo posto c’e’una distesa di sabbia, sabbia vera, sparpagliata al suolo. Soprattutto d’inverno, nella stagione fredda, il surf bar acquista piacevoli connotati di oasi felice, sembra un chiosco di mare, un rifugio in mezzo ad una palude di melma e fango.
Io e Merrill prendiamo posto al bancone del bar.
Ho questa idea strana che lei condivide con me.
Voglio sempre sedermi al bar quando vado a bere un drink. Non mi va di di stare seduta ad un tavolo. Mi piace sedermi sugli sgabelli, alti, di legno o di acciaio, persino sopra a quelli di plastica. Mi sembra di dominare la scena stando posizionata li’, in alto.
Il contatto con i baristi e’ piu’ immediato e per questo la maggior parte delle volte permette di relazionarsi in modo piu’ amichevole e meno formale.
Trovo divertente spiare gli altri personaggi seduti al banco di un bar. Soprattutto quando sto sorseggiando una bibita in solitudine.
A volte capita anche questo a New York.
A volte mi capita di essere da sola , di non aver voglia di rimanere a casa, cosi’ scelgo molto spesso di andare in un pub vicino a dove abito e di stare li’ tranquilla.
In queste circostanze mi trovo ad essere circondata da persone che come me se ne stanno sedute da sole di fronte al banco bar. Sta a me decidere se avvicinarmi a loro oppure no, dipende dal mio umore. Ho conosciuto la gente piu’ strana e stravagante stando seduta sugli alti sgabelli.
In genere, faccio subito click con i baristi. Mi basta poco, un sorso di Vodka, un soffio di birra, una bollicina di Martini, Mi sento subito elettrizzata, rilassata, e comincio a parlare in modo pacato e dolce, mai volgare ne’ appiccicoso. Questa deve essere la mia arma vincente. Dai baristi non ti devi mai aspettare nulla. Abbassare le proprie aspettative sentimentali amorose. Questo e’ il segreto. Chiaramente alcuni baristi si aspettano una mancia piu’ appetttitosa, percio’ si comportano con le clienti di conseguenza. Ma ormai io ho l’esperienza e l’acume per rendermi conto da subito se il “bartender” vuole essere ricompensato in moneta o con il mio amore gentile.
Richard e’ il barista di stasera. Al Surf Bar.
Conosco Richard da alcuni mesi ormai. Il nostro rapporto si e’ mantenuto sempre nei limiti della decenza, eccezion fatta per qualche sorriso in piu’, e per qualche occhiata ambigua buttata qua e la’ durante le nostre conversazioni di una superficialita’ quasi nauseante,spesso rese ancora piu’ insulse dai parecchi shots di Tequila offerti da lui verso fine serata. Molto generoso il giovane. Il “mio” barista. Fisicamente non è il mio tipo, lo trovo tuttavia molto carino e tremendamente sexy. Il suo look e’ quello del surfer. Ovvio. Scontato. Mai noioso pero’.
Richard ha i capelli biondi e ricci, lunghi fino alle spalle, gli occhi verdi, una scia di denti bianchi e regolari, una carnagione ambrata e un corpo sottile e robusto nello stesso tempo. Stasera indossa skinny jeans, un paio di scarpe Vans gialle coi graffiti, una maglietta nera con la scritta “ Free Buzz” e una bandana rossa che fa capolino dalla tasca dei pantaloni. Tutto sembra trasandato, buttato li’ , disordinato, eppure tutto e’ stato studiato nei minimi particolari. Una fashion victim come me lo riconosce facilmente.
Merrill e’ convinta che io piaccia a Richard. Io sono convinta che sia solo una questione di noia. Per esempio, adesso, in questo preciso istante, mi sto annoiando. Allora mi metto a flirtare con lui.
Incredibile come ci si possa annoiare persino in una citta’ multi culturale, multirazziale, iperstimolante e dinamica come New York. Eppure succede. La noia te la porti dentro, non importa dove ti trovi.
Deglutisco la sangria e il bicchiere rimane vuoto. Nel fondo solo i cubetti sfatti di ghiaccio e le fette sottili di frutta.
A questo punto non so mai cosa fare. Cosa inventarmi. Voglio mangiare la frutta ma non riesco a trovare un modo educato e pulito per farlo. A volte provo ad immergere la cannuccia e a far scivolare i pezzettini dolci lungo la parete bagnata del bicchiere. Nella maggior parte dei casi, fallisco miseramente. Altre volte mi porto con interessante velocita’ il bicchiere alla bocca, lo sollevo, e con la mano colpisco il fondo ,sperando che la frutta si riversi nella mia bocca. Non sempre funziona perche’ di solito il primo ad arrivare e a toccare le mie labbra e’ il ghiaccio rimasto sul fondo, piu’ pesante delle fette di mela. Il metodo migliore sembra essere quello di guardarmi in giro, per assicurarmi che nessuno mi stia osservando, infilare frettolosamente le mie piccole dita nel bicchiere , e rubare cosi’ i pezzetti teneri da ingoiare avidamente. Il tutto deve avvenire a velocita’ della luce prima che qualche spione mi colga in flagrante. Nel caso in cui mi piaccia il barista devo pero’ cercare un’alternativa piu’ elegante.
Richard mi piace. Un poco. Non tanto tanto tanto. Un pochino. Non mi sta indifferente.
Cosi’ decido, semplicemente, di chiedergli un cucchiaio, e di adoperarlo in modo civile per raccogliere decorosamente le fette di frutta. Richard mi sorride divertito. Deve avermi beccata mentre cercavo inutilmente di sollevare i pezzetti con la cannuccia. Alternativa numero uno. Divoro la frutta come una bimba iperattiva e affamata. Dai su, andiamo al Galappagos, suonano i New Young Pony Club– mi propone Merrill fra l’ubriaco e il divertito.
Credo che sia l’effetto dell’erba. Merrill la tiene parecchio bene, ma quando comincia a bere poi diventa davvero selvaggia. -Ok- le rispondo un po’ indifferente. Mi sto concentrando su Richard, porca miseria.
Richard ha intuito le mie intenzioni perche’ mi accarezza il dorso della mano , e mi dice: Dai, vi raggiungo piu’ tardi- Non so se crederci oppure no, ma a dire la verita’ poco mi importa.
Io e Merrill usciamo, e ci trasciniamo al Galappagos, ridendo come due stupidine.
Al Galappagos quasi sempre suonano bands poco conosciute, sconosciute, oppure emergenti. La differenza e’ minima per quanto mi riguarda. I Pony Club sono ok. La lady della band ha una voce da folletto dei boschi che ricorda molto la Bijork degli esordi. Nuovo locale. Il Galappagos. Di nuovo il banco del bar.
Io e Merrill sedute. Io che ordino una vodka liscia, lei un dirty Martini. Un tipo seduto a fianco a me comincia a flirtare , ma io non ho voglia. Fammi un piacere, vai ad amoreggiare da un’altra parte, ritardato. Ho solo voglia di ascoltare della bella musica adesso, per non pensare ad altro. Voglio solo la musica.
Mi immergo nelle note, completamente, inizio a girovagare con la mente e l’anima, me ne vado per i fatti miei e non penso piu’ neppure all’amore. O al sesso. Neppure al sesso. Sono come un angelo. Anzi, sono un angelo. Una creatura alata. Leggera. Spirituale. Una creatura assessuata.
Richard e’ di parola, lo vedo entrare calmo e sorridente mentre si scambia un five con il buttafuori all’entrata. E’ proprio carino, inutile negarlo. Ma io non ho voglia.
Non ho voglia di ricominciare a flirtare, di entrare nei miei panni di seduttrice, di assumere atteggiamenti da divetta sexy, di gesticolare con i miei capelli, di accavallare le mie gambe seminude , ne’ di offrirgli dello humor scadente.
“Bye ragazzi, divertitevi, non mi sento molto bene purtroppo , che schifo…mi sa che ritorno ad Astoria...”.- gorgheggio ,poco convinta, rivolgendomi a Merrill e Richard, mentre sollevo il mio bel sedere e apro rapidamente la borsa alla ricerca della metro card.
Ma come? Io sono venuto qui per te..e tu sparisci-mi risponde Richard, molto languido. Merrill mi conosce fin troppo bene per tentare un qualsiasi tipo di commento. Richard, sono sicura che non sei venuto qui per niente– ribatto calma e suadente. Gli strizzo l’occhio e me ne vado, senza girarmi, senza sollevare il braccio per accennare ad un saluto anche minimo , senza catturare le ultime note di una canzone che non ricordero’ mai piu’.
La fermata della metro e’ distante, ma non ho paura. La zona e’ abbastanza sicura e comunque ci sono ancora un sacco di giovani in giro che stanno facendo baldoria. Stringo forte nel mio pugno la tessera della metro, questo pezzetto giallo di carta semi lucida che mi porta a casa, e non solo. Con la metro io posso andare dapperttutto, sono libera. Completamente libera. Senza padroni. Senza amanti noiosi.
Le mie sono corse infinite ed interminabili, su e giu’ per l’isola , e per i suoi arcipelaghi.
Non mi sbaglio. Sono sicura che dopo il mio congedo Richard si sara’ sicuramente seduto al banco a flirtare con un’altra ragazza qualsiasi e probabilmente i due finiranno col fare l’alba sdraiati sullo stesso letto.
New York e’ anche questo.La citta’ degli incontri fortuiti, delle copulazioni brevi ma intense, di teneri abbracci che il giorno dopo non esistono gia’ piu’.
Meno male. Niente sensi di colpa per stasera.
Adoro questa città.
Racconto facente parte di una collezione di storie autobiografiche newyorkesi “Diario di un filo di perle” scritte dall’autrice Alessandra G. e concesse per la pubblicazione sul web a “Donne che Emigrano all’Estero”.