Ormai ho 41 anni suonati e mi capita spesso di guardarmi indietro e fare un bilancio della mia vita. Il risultato è sempre lo stesso: nonostante tutto, rifarei le stesse cose. Infatti, se cambiassi qualcosa, dovrei rinunciare ai viaggi. A quelli proprio non so dire di no. Ho viaggiato molto, per essere una ragazza di provincia nata senza telefono né internet, ma ancora poco se guardo il mappamondo. Fra tutti i viaggi fatti, però, ce ne sono due che non dimenticherò mai: la prima volta in Africa, in Guinea, e il primo espatrio, a Singapore. Proprio cosi, il primo espatrio, quello vero, non si scorda mai.
Tutto accadde in un giorno.
É stato mio padre a farmi appassionare ai viaggi. Con lui, da piccola, andai in treno a Bergamo per una visita medica e con lui feci il primo viaggio all’estero, in Spagna. Lui mi ha insegnato a non perdermi mai, per strada come nelle situazioni difficili. Mi sa che un pò si è pentito di avermi cresciuta cosi perché da allora non ho smesso di viaggiare e stare lontana da casa. Ma torniamo a noi. Tutto accadde un giorno, per caso, quando il mio fidanzato ricevette una proposta di lavoro e chiese cosa ne pensassi. Andare a vivere a Singapore?! Ebbene: preparai i bagagli e domandai quando saremmo partiti.
Singapore era sulla mia lista da sempre ma ero certa che non avrei mai avuto l’occasione di andarci. Troppo lontano. Quindi, quando sentii pronunciare quel nome lo presi come un segno del destino, o piano divino, se volete. Nonostante abbia poi sposato il mio fidanzato, credo di essere partita più per amore del viaggio e della meta che per amor suo. Spero non legga l’articolo e chieda il divorzio!
L’inizio della mia avventura a Singapore
Terminato il contratto di lavoro a Milano e spedito pacchi di cose a casa dai miei genitori, sono partita affrontando ben 12 ore di aereo, cosa che ora non sarei capace di fare. Ma è stato amore a prima vista. L’aeroporto era stupendo, accogliente, indescrivibilmente bello e pieno di verde. Non avevo mai visto la natura in un aeroporto prima di allora. Appena fuori, l’aria profumava di natura e di umidità, un odore tipico del Sud est asiatico. Il caldo assaliva ma sembravo un bambino in un negozio di caramelle, col naso sul finestrino del taxi a guardare i palazzi moderni avvolti da alberi, piante e fiori. E poi era tutto cosi pulito e organizzato.
Il mio fidanzato era partito prima di me per iniziare a lavorare e cercare alloggio. La burocrazia mi era sembrata da subito abbastanza snella. L’organizzazione dalla quale era stato assunto si era mostrata molto supportiva: trovare casa non fu difficile. Affittammo un appartamento a due passi dall’ufficio. Rimasi senza lavoro poco meno di due mesi e poi fui assunta dalla stessa organizzazione alla quale avevo mandato il CV prima di partire dall’Italia. Nel frattempo, trascorrevo le giornate ad andare in giro, a piedi, coi bus e con la metro, per strada, nei supermercati e nei parchi. Tutto era fantastico.
Tanto verde ma non sempre rose e fiori
A Singapore, il mio primo indimenticabile espatrio, il paese che ancora amo alla follia, non è stato sempre rose e fiori. Lo shock culturale l’ho avvertito, soprattutto a livello lavorativo. Noi italiani siamo abituati a lavorare tanto, a risolvere ogni genere di problemi e a fare un po di tutto. Lì invece ho scoperto che la vita va oltre il lavoro e la cosa, stupidamente, mi innervosiva. Nonostante i singaporiani siano dediti al lavoro e ci tengano a farlo bene, amano moltissimo trascorrere il proprio tempo libero a passeggiare nei parchi, hiking, andare in bici, praticare vari sport, uscire con gli amici, mangiare fuori e fare shopping. Uno stile di vita diverso che ho imparato ad apprezzare col tempo.
Lo shock culturale a Singapore: le differenze che mi facevano ridere e piangere
Ho lavorato per quasi due anni in un dipartimento con molti singaporiani e pochi stranieri. Questo, quindi, mi ha permesso di conoscere meglio la realtà e sentirmi parte del tessuto sociale locale. Dopo tempo, sia chiaro. Come molti novelli expat, ero attaccata alle usanze italiane. I paragoni fra i due paesi non sono di certo mancati, all’inizio! Quando ho capito di dover accettare il modo di vivere locale sono stata capace di sorridere su differenze quali ad esempio il cibo. I singaporiani hanno il chiodo fisso per il cibo. Arrivati in ufficio prima delle 9, alle 11 c’era già chi passava a chiedere di andare a pranzo. Poi c’era lo spuntino, poi il cibo preparato da qualcuno, i compleanni di parenti, assaggini vari e così via fino a sera.
La lingua costituì un’altra difficoltà. I singaporiani parlano inglese ma hanno un fortissimo accento asiatico (cinese, malese e indiano). Mescolano anche termini locali e l’inglese di Singapore infatto si definisce Singlish. Il caldo e l’aria condizionata spaccacollo sono altre due cose a cui ho fatto fatica ad abituarmi. Anzi, al caldo ho resistito, ma al freddo che c’era negli uffici, nei supermercati e persino negli autobus proprio no. Le taglie dei vestiti erano settate per i corpi magri della maggior parte della popolazione e io, che di solito indossavo una S, li dovevo prendere una L. Una botta per l’autostima, soprattutto dopo aver messo su 4 chili e dover cercare una XXL.
I discorsi sulla politica mi creavano sempre imbarazzo. Dovevo spiegare come mai la politica italiana non fosse basata realmente sul benessere della popolazione, cosa molto evidente per la politica singaporiana. I discorsi sull’efficienza, invece, mi facevano ridere. Le mie colleghe spesso si lamentavano della metro perché passava ogni 3 minuti esatti. La metropolitana di Hong Kong, paese con cui spesso avvenivano i paragoni, passava ogni minuto. Alla domanda “E la metro da te ogni quanto passa?” io ridevo. Nei food court non davano i coltelli e ho dovuto imparare a tagliare una coscia di pollo col cucchiaio. Ve lo immaginate? A lavoro le riunioni erano lunghe e tutto era organizzato con passaggi precisi: domande o situazioni fuori da quegli schemi, creavano il panico generale.
Le notizie sull’Europa erano scarse, tutto era incentrato sulla Cina e l’Asia. Questo mi faceva sentire fuori dal mondo. Lucertole e scarafaggi giganti davano l’idea della posizione geografica in cui mi trovavo. Avevamo costantemente lucertole in casa nonostante abitassimo al quinto piano ma avevo imparato a farle uscire. Agli scarafaggi giganti non mi sono mai abituata. Uscivano principalmente di sera, per strada, e se ne vedo uno ancora adesso do di matto.
Studiare, osservare, capire: “Ang Mo” per sempre
Molti mi chiedono cosa abbia amato di Singapore visto si tratta di un paese molto piccolo. Si trova in effetti a 12 ore di aereo dall’Italia e ha una cultura molto diversa dalla nostra. La sua storia relativamente recente, poi, non risulta attraente dal punto di vista turistico. Da quel punto di vista. Ecco, il cambio di prospettiva è stato fondamentale.
Singapore è una città-stato, ex possedimento britannico che ha ottenuto l’idipendenza dalla Malesia nel 1965. Formato da cinesi, malesi e indiani, ha avuto un politico più unico che raro, il padre fondatore Lee Kuan Yew. Partendo da qui ho letto molto su questo paese, soprattutto il libro “Dal terzo mondo al primo” in cui Lee Kuan Yew descrive il processo di unificazione sociale del paese e come ha studiato gli altri sistemi per crearne uno adatto a Singapore. Sono rimasta affascinata da quella storia e ho iniziato a capire tante cose anche parlando con le persone.
Gli occhi occidentali vedono soltanto il divieto di masticare gomme (divieto messo in atto dopo che le persone lasciavano le gomme masticate ovunque) . Oppure l’esistenza della pena di morte, tradotto in mancanza di libertà. Ma bisogna andare oltre e capire origini, esigenze e percorsi evolutivi di un paese. Accettare anche il fatto che, se non si commettono crimini gravi quali omicidio, traffico di droga, terrorismo, uso di armi da fuoco, non si ha motivo di temere nulla. Non sono a favore della pena capitale e sono certa che prima o poi anche Singapore non avra piu bisogno di questo spauracchio. L’ordine finalizzato al benessere della collettività è una priorità perché tutti possano avere il diritto di girare per strada senza paura. I reati, soprattutto fiscali, sono considerati vergognosi perché impediscono i servizi comuni. Pagare le tasse è considerato doveroso e la gente si aspetta, giustamente, di ricevere servizi efficienti in cambio.
La perfezione non esiste, non smetterò mai di dirlo, ma Singapore ha sempre cercato di avvicinarsi più possibile alle esigenze della popolazione, cosa che continuo ad ammirare. Dopo questo processo di conoscenza e comprensione mi sono sentita “Ang Mo”, un termine usato dai singaporiani per definire gli stranieri. Dopotutto, un po singaporiana lo sono diventata anche io.
3 Commenti
Confesso che io, di Singapore, non sapevo nulla prima di leggere questo articolo. Mi correggo, forse ne lessi in un libro di Terzani ma non ne sono nemmeno certa. Mea culpa, mea culpa.
Leggendo il tuo articolo ho trovato interessantissima la tua riflessione sui singaporiani e sulla loro etica del lavoro che, però, non li costringe a correre come il criceto sulla ruota. Il fatto che da italiani, la leggerezza altrui spesso ci disturbi è un punto in comune di moltissimi expat che, soprattutto all’inizio, sono spiazzati di fronte al mondo del lavoro in altri Paesi. Io stessa, all’inizio, non mi capacitavo del fatto che i miei colleghi non venissero licenziati per i loro 3-4 minuti di ritardo.. 😉
I miei genitori vennero a trovarmi e passarono in ufficio nel giorno della festa di dipartimento. Mio padre mi disse “Ti pagano per fare festa?” Ero ancora un fase di accettazione ma col senno di poi, un’ora di festa ogni tanto faceva solo bene al morale invece di imbruttirsi per pensare a come sfruttare ogni secondo di lavoro in maniera ossessiva e stancante, come ero solita fare.
Guarda, io ho lavorato per due datori di lavoro diversi nello stesso Paese, la Germania. Il primo era ossessionato da cose come puntualità oppure contava le pause al minuto. Il tutto tramite una tabella excel, invece di dare ai dipendenti un badge e rendere il processo più svelto. Il secondo, per il quale lavoro ora, ha un sistema di riconoscimento con una piastrina (simile al badge) e se ti manca un’ora perché dovevi andare a prendere i bimbi a scuola o ti è uscita un’emergenza oppure non c’è nulla da fare non succede nulla. Recuperi con un gg nel weekend oppure ti rimane un’ora in negativo che, tanto, sa che recupererai non appena ci sarà un poco di più da fare. Inutile dirti quanto l’ambiente sia, proprio per questo motivo, decisamente più piacevole, familiare e lavorare sia proprio bello. A trecentosessanta gradi.