- Viaggiare oggi, e viaggiare in tutto il mondo in maniera continuativa e per lunghi periodi, è un fenomeno che accomuna molte persone. Tu Donna perchè sei partita la prima volta?
A novembre 2012 terminavo un’esperienza di stage non retribuito al Festival del Cinema di Roma. Era stata un’esperienza appassionante, vi avevo investito molte energie, per sei mesi. Il cinema è sempre stata una grande passione e quella fu un’opportunità molto stimolante, non m’importava di lavorare gratis, stavo facendo qualcosa che amavo. Ma quando il Festival finì, anche gli ultimi report: arrivederci e grazie. Avevo già terminato tutto il ciclo di laurea, ero passata da un lavoro all’altro senza mai raggiungere indipendenza materiale né soddisfazione personale; avevo fatto un Master in produzione cinematografica ed ero finita al Festival. Quando anche quello fu concluso, mi resi conto che stavo disperdendo le più belle energie della mia vita a combattere per sopravvivere in un’ Italia, purtroppo, fredda e poco accogliente. Non ci stavo, mi sembrava di non andare da nessuna parte, non volevo accontentarmi di ciò che la realtà italiana poteva offrirmi. Quando avevo 10 anni tenevo un diario con la lista dei sogni da realizzare, viaggiare era al primo posto. La prima vera esperienza all’estero l’ho fatta a 19 anni in Francia come ragazza alla pari. Lì ho capito che per me viaggiare non era staccare la spina, ma vivere la realtà di un luogo dal suo interno, imparare la lingua del paese, vivere la sua cultura. Quando a 26 anni ho deciso di partire per il Belgio era arrivato per me il momento giusto per prendere il volo e sapevo che non sarebbe stata una vacanza. Solo ora guardandomi indietro a tre anni fa, mi rendo conto che l’Italia per me è stata una palestra, per tutto ciò che è arrivato e ho vissuto nei tre anni successivi in giro per il mondo.
- Dopo quella prima partenza non ti sei più fermata. Quali sono state le tue successive tappe?
Si, quando sono arrivata in Belgio, anche se col passare dei mesi, mi integravo sempre più velocemente, dentro di me sapevo che quel paese sarebbe stato il trampolino di lancio per altre appassionanti avventure. Il Belgio ha iniziato a vacillare dopo un viaggio on the road di 7 settimane in Australia, sulla East Coast. Forse la mia anima vagabonda si era liberata e sentivo che quello stile di vita somigliava di più a qualcosa di ‘vero’ che stavo cercando. Il Belgio mi ha dato gli strumenti materiali per poter volare e così sono partita per la Costa Rica. Non avevo un programma quando sono arrivata in America Centrale, né appoggi, da subito un’energia di movimento ha iniziato a impossessarsi di me e dopo già tre settimane passavo la frontiera con il Nicaragua. Non mi sono mai fermata: El Salvador, Guatemala, Belize, Messico. Poi ho provato a fermarmi, ho lavorato un po’ ma ero come una tigre in gabbia e così dopo aver esplorato un altro po’ di Messico, sono scesa giù in Guatemala, ancora El Salvador, Nicaragua, Costa Rica, Panama e Colombia. Poi sono tornata in Europa e tra Belgio, Olanda e Italia mi sono messa a scrivere un libro che racconta questo viaggio di peregrinazione in America Centrale.
- Dove sei oggi?
Oggi sono in Australia, nel Sud-Ovest, a 300 km a sud di Perth in una minuscola località di surfisti. Vivo in un maneggio, in cambio di qualche aiuto in casa (baby sitter per lo più) non pago l’affitto e ho trovato lavoro nella cucina di un general store e sono molto contenta. La cucina è sempre stata una mia passione e sono grata del fatto di aver trovato un ambiente amichevole e gentile, in cui tutti sono disposti a insegnare anche a chi esperienza non ne ha. Un posto in cui le gerarchie non sono così marcate perché tutti fanno tutto, quindi ho la possibilità di conoscere tutto il funzionamento complesso di una macchina, come quella di una cucina. Non avevo mai pensato di lavorare in cucina perché semplicemente non mi si era mai presentata l’occasione e ora sono felice di aver trovato un luogo dove imparare un mestiere che mi appaga moltissimo.
- Hai dei progetti per il futuro?
Un progetto suona come un piano! Non credo, so che il mio visto in Australia termina a fine settembre e so che non lo rinnoverò perché non ho lavorato nelle farm come previsto dalla legislatura australiana. Ma sono contenta così, l’Australia è stato un altro paese di passaggio, in cui ricominciare ancora una volta da zero, che al momento mi ha permesso di esplorare lati di me sopiti, che chissà potrebbero maturare in futuro.
- Cosa hai imparato di te stessa viaggiando?
Sto ancora viaggiando, è difficile riuscirsi a guardare con distacco per capire cosa si è imparato. Ogni viaggio, dal Belgio al Centro America all’Australia, è stato profondamente diverso. Sicuramente se dovessi tirare le somme, dopo ogni grande caduta c’è sempre stata una salita, un evento fortunato o inatteso, qualcosa che mi ha ricaricato le batterie e mi ha fatto tornare a sognare. Ho imparato a conoscere e a spingere i miei limiti laddove non credevo potessi farcela, come scalare un vulcano di 2000 metri nella giungla del Nicaragua, andare tutti i giorni a lavoro in bicicletta nel freddo inverno belga, pregare durante un’attraversata in barca a vela nel Mare dei Caraibi con mare forza nove, alzarmi alle 4,30 del mattino per andare a lavoro, fare puzzle, parlare quattro lingue contemporaneamente e forse soprattutto essere presente in ogni esperienza che sto vivendo senza preoccuparmi troppo del futuro. Fondamentalmente credo che ogni paese che ho attraversato mi abbia insegnato ad avanzare in quel difficile e precario equilibrio tra ciò che già sai e conosci e ciò che ignori: ogni volta mi sono ritrovata a giocarmi tutte le carte di ciò che avevo già imparato e ciò significa molto spesso anche fallire, perché ogni paese può essere fondamentalmente diverso, a volte funziona, altre no e allora ti rendi conto che devi imparare ancora. Viaggiare per me è stato un procedere per tentativi ed errori, un fare e disfare una maglia, per lo più un processo che va per fasi e che ha sempre bisogno di rinnovarsi da capo. Molto spesso dalle esperienze che faccio capisco ciò che non voglio, ciò che non mi piace e questo modo di procedere può essere molto difficile da sostenere ma può lasciare così spazio a ciò che non si sapeva ancora, a ciò che non si aspetta e che può sorprenderci. Per esempio, dopo il Belgio sapevo che non avrei più voluto essere costretta a fare un lavoro al computer per 8 ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Quando sono arrivata in Australia mi sono abbattuta molto nel lavorare in un parco di divertimenti, molto simile ad un posto dove avevo lavorato sei anni fa. Non lavoravo al computer ma mi sembrava di essere tornata indietro di sei anni! Poi invece sono arrivata a lavorare in cucina, a lavorare con le mani ogni giorno, creando nuovi piatti e appagando le pance di tanti. Una volta lessi un racconto di un uomo che costruiva case e fortezze e di un altro che coltivava frutti e verdure. Il costruttore, dopo anni di lavoro, può ammirare tutte le sue realizzazioni compiute; Il coltivatore, seguendo il ritmo delle stagioni deve imparare a conoscere a fondo il terreno in cui coltiva per vedere crescere i suoi frutti, che quando saranno maturi saranno pronti per essere raccolti e venduti o regalati, per poi ricominciare da capo, Ecco forse è vero che l’umanità si divide in queste due categorie e io ho capito di appartenere alla seconda. Non giudico male la prima solo perché non vi appartengo, perché l’uomo avrà sempre bisogno di un tetto sotto al quale dormire ma anche di cibo con cui nutrirsi, quindi le due realtà sono complementari. Purtroppo chi non ha fissa dimora viene spesso visto sotto una luce negativa e allora se c’è una cosa davvero preziosa del viaggiare, vivendo in culture e mondi diversi è l’imparare ad accettare le differenze.
- Qual è il paese che hai visitato e dove avresti potuto vivere per sempre?
Sinceramente non ho ancora visitato nessun paese che mi abbia fatto pensare di poter rimanere per sempre. Bisogna viverci per un certo periodo di tempo per poter affermare, questo è il paese dove voglio fermarmi. Nei paesi dove mi sono fermata più a lungo, alla fine ho scelto che quello non era il mio paese. Credo che il paese perfetto non esista; molto spesso i viaggiatori dicono che ogni luogo è fatto di persone e che è quello a determinare il luogo. Io aggiungo che è fatto di energie, profumi e colori e laddove le circostanze mi porteranno a fermarmi per più a lungo vorrei che ci fosse una combinazione vivace di profumi, colori e suoni.
- Hai scritto un libro su questo tuo viaggio infinito dal titolo “Where are you going”. Cosa spinge a mettere su carta le proprie esperienze?
La paura dell’oblio.
Ricordare e raccontare per poter rivivere, non perdere, capire o anche passare oltre. Un’esigenza personale dettata dal conoscere tante persone che molto probabilmente non rivedrò mai più, scrivendo di loro, so sempre che quelle persone sono esistite nella mia vita e so dove poterle ritrovare. Scrivo anche per stemperare certe emozioni di momenti vissuti troppo intensamente e poi anche perché non avendo un palazzo da costruire da lasciare ai posteri, almeno posso tracciare un segno di qualcosa che ho vissuto.
Ho deciso di pubblicare, invece, perché alcune persone incontrate durante i miei viaggi me l’hanno chiesto; sono rimaste incuriosite da alcune mie storie e così ho pensato di renderle pubbliche.
Estratto dal libro
Il voto del silenzio, lago di Atitlan, 7 febbraio 2014
“Avevo deciso che avrei smesso di parlare a mezzogiorno, quel giorno era anche il compleanno di mia mamma e volevo farle gli auguri a voce prima di smettere di parlare. Ero psicologicamente pronta per quella faticosa salita con zaino in spalla, conoscevo la strada, non potevo perdermi e non avrei dovuto chiedere a nessuno indicazioni. Lungo il sentiero incrociai ogni tanto qualche uomo carico di legna sulla schiena che scendeva, cordialmente salutava ed io sorridevo per ricambiare, un uomo però a un certo punto mi chiese: “Dove vai?.. Hai bisogno di aiuto?”. Quella fu la prima volta che mi scontrai col mio silenzio. Posai allora il dito indice sulla mia bocca e poi feci segno di no col dito. Quello sconosciuto capì subito che non potevo parlare, alzò il pollice verso l’alto, in segno di ok e sul suo viso lessi un’espressione di rispetto, infine mi sorrise e passò oltre. Quando arrivai in cima, non potevo crederci di avercela fatta senza morire d’infarto. Tutti stavano ancora mangiando, Mark si alzò per venire a salutarmi e commentò “Non credevo ce l’avresti fatta a salire con tutto lo zaino! Brava! Posso portarti lo zaino fino in camera?”, orgogliosamente scossi la testa per dire di no. Mi chiese se avevo fame, era avanzato del cibo e potevo sedermi a mangiare con loro. Quello fu il mio primo vero momento in pubblico e mi sentii subito a disagio. Tutti mi salutarono ed io non potei far altro che sorridere nervosa. Mark spiegò che ero in voto di silenzio ed io improvvisamente mi sentii prima una disabile e subito dopo esclusa, emarginata da qualsiasi interazione umana. Nessuno mi rivolse parola, ovviamente perché non potevo rispondere, fu come non esserci, come non essere vista. Mark era molto premuroso nei miei confronti e a volte le sue attenzioni mi facevano sentire ancora più handicappata se non addirittura una bambina. Il fatto di aver avuto un contatto precedente con lui rendevano la nostra relazione più facile da gestire e vedevo in lui l’unico punto di riferimento per non sentirmi persa. A un certo punto qualcuno gli chiese informazioni su di me. Esistevo ancora, non ero completamente invisibile. La sua voce era molto dolce e con estrema delicatezza, come se volesse cercare di essere il più preciso possibile, raccontò da dove venivo e a che punto ero del mio viaggio. M’impressionò ascoltare la mia storia da uno che avevo appena conosciuto e soprattutto quella storia era molto fedele a quella che gli avevo raccontato.
Il mio silenzio era una sfida anche per gli altri che dovevano relazionarsi con me. Notai subito che ero molto più proiettata ad ascoltare quello che si diceva intorno a me e troppe volte dovetti censurarmi nel dire qualcosa, avrei voluto dare un mio commento o esprimere un pensiero, ma non potevo. Mi sentii un po’ frustrata e capii quanto siamo dominati dal linguaggio come forma di autoaffermazione. Io parlo dunque sono. Appena terminato di mangiare mi riposai isolandomi per una sigaretta. Mi sentivo un po’ sola. Per fortuna già alle 20 tutti andarono a dormire, Mark mi chiese: “Ti va di salire a dormire?”. Feci di si con la testa. Salimmo in camera anche con l’altra ragazza che dormiva in camera con noi. Non avevo idea da dove venisse, poteva essere americana dal suo accento inglese, mi stava simpatica. Rivolgendosi a me: “Da quanto tempo viaggiate insieme?”. Mi sorprese che lo chiese proprio a me. Mark mi aiutò rispondendo lui per me. Lei allora commentò: “E’ molto divertente che puoi parlare con la voce di Mark”. La ragazza sempre rivolgendosi a me: “Sai che un’amica di mia madre una volta aveva fatto voto di silenzio per un anno e dopo aveva raggiunto uno stato di consapevolezza tale che la sua presenza energetica era incredibilmente potente!”. Mi piaceva quell’idea di aumentare la mia presenza e quel senso di frustrazione che avevo provato a cena sparì. M’infilai sotto le coperte accanto a Mark, mi rannicchiai tra le sue braccia per non sentire freddo. Sorridendo mi disse: “Forte che nella tua condizione non devi preoccuparti di imparare i nomi di tutti quanti, t’invidio..”. Gli sorrisi. Mi augurò la buonanotte e mi baciò, io lo guardai negli occhi e gli sorrisi un’altra volta. Dormimmo abbracciati e incastrati come due pezzi dei lego. I nostri nasi si toccavano e il mio respiro era il suo. Fino a pochi giorni prima ero così giù, non mi aspettavo proprio di vivere tutte quelle emozioni. “
Il libro è attualmente disponibile solo in italiano. Gli introiti derivanti dalla sua vendita serviranno a coprire le spese per la sua realizzazione in lingua inglese. Chi sosterrà il progetto di Donna acquistando la copia digitale in italiano riceverà in OMAGGIO quella in inglese.